Il meglio della fantascienza è morto anni fa. Nel mondo del cinema e della televisione sembrano esserne convinti tutti. Certo, i film del genere riscuotono ancora abbastanza successo ai botteghini, ma sul fronte delle idee la crisi è evidente. In TV si guarda ancora con rimpianto la lapide di Battlestar Galactica, l’ultimo esempio davvero riuscito. Poi ci sono stati i tentativi, tanti, falliti in corso d’opera (FlashForward, V, Terra Nova) o le produzioni così così, quelle che reggono (per ora) di fronte alla ghigliottina degli ascolti ma che non contribuiscono ad elevare il genere, come Alphas, Warehouse 13, Eureka. Insomma, serie che includeremmo nella categoria del godibile, ma nulla di più. Il problema, forse è alla base, ovvero la convinzione che la fantascienza sia un pozzo illimitato di argomenti. No, non lo è. Come diceva Robert Sheckley, scrittore che deve il successo proprio a questo genere, la Science Fiction è rischiosa: si va trasformando da una manciata di idee originali a una babilonia di ripetizioni e inutili tentativi di insanguinare l’utopia. Ma forse il vero problema è che fino ad ora la cercavamo nel posto sbagliato. Perché è dall’America (che, grazie alla prima rivista di settore, Amazing Stories (1926), vanta il titolo di patria natia del genere) che ci aspettavamo che la fantascienza risorgesse. E invece la fenice, stavolta, è di casa in Svezia.
La rinascita del genere risponde al nome di Äkta Människor (Real Humans), serie del 2012 che alla ribalta delle cronache internazionali è arrivata solo ora, quando in patria si trasmette la seconda stagione (iniziata lo scorso dicembre). In Italia la fama dello show è recente e ha conquistato in queste settimane blog, forum, community: merito dei siti fornitori di sottotitoli o dei canali che distribuiscono (illegalmente) la serie in streaming, che hanno consentito al prodotto di essere conosciuto e apprezzato anche al di fuori dei confini nazionali. Merito dei riconoscimenti ottenuti: Real Humans ha trionfato, lo scorso settembre, all’ultima edizione del Prix Italia, il concorso internazionale organizzato dalla Rai che premia i migliori programmi mondiali di TV, internet e radio. Nello stesso mese il creatore della serie, Lars Lundström, è stato premiato ai Seoul Drama Awards. Non stupisce, dunque, che circa 50 Paesi del mondo – tra cui Australia, Germania, Francia e Sud Corea – abbiano comprato i diritti per trasmettere la prima stagione: la rinascita del genere va condivisa, vista, assaporata e non è da escludere che arrivi presto anche in Italia.
Real Humans parte dalla più tradizionale premessa: la presenza di un futuro prossimo in cui gli umani vivono a stretto contatto con cyborg chiamati hubot, robot umanoidi utilizzati come badanti, operai, domestiche. Ma è solo il punto di partenza per permettere al ruolo sociale della fantascienza di venire alla luce: lo show utilizza la contrapposizione tra macchine e umani per affrontare temi importanti, come l’integrazione, le minoranze, i rapporti tra persone dello stesso sesso, l’immigrazione, la politica del lavoro. C’è un filo disturbante che attraversa trasversalmente tutta la serie, creato principalmente dai tempi sincopati e dalla presenza scenica di umanoidi che, in tutto e per tutto, somigliano agli esseri umani. C’è un procedere lento e silenzioso, fatto di poche parole e molte riflessioni, stile tipico della televisione nordica. Per chi è abituato ai colossi made in USA, la serie appare “misera” da un punto di vista stilistico: pochi effetti speciali, budget low cost. Ma non importa. C’è spazio per pensare, per capire, per ragionare. Che poi è il vero scopo della fantascienza: l’estetica è un surplus, quello che davvero la rende degna di nota è, per dirla con le parole dello scrittore Ugo Malaguti, la sua «componente ribelle, quasi rivoluzionaria, che non gli permette di accettare supinamente ogni cosa, seminando quell’incertezza che è il primo presupposto per un desiderio di autentica comprensione delle cose». E in Real Humans tutto questo c’è.