«Devi parlare più forte»
Dice il mio interlocutore, che a questo punto sta incominciando a innervosirsi.
Perciò ripeto:
«Record a video»
Ma il prisma dei Google Glass, in alto a sinistra del mio campo visivo, continua a mostrare le opzioni del menu, irriverente e immobile come un impiegato delle poste provvisto di un buon sindacalista. Il mio contatto mi guarda e scuote la testa esasperato e so esattamente cosa sta pensando.
Non deve essergli mai successo nulla del genere nelle uscite precedenti ed è visibilmente deluso, ma non dalla macchina bensì da me. Non è infatti possibile arrabbiarsi con un oggetto provvisto di un’interfaccia così userfriendly, mentre è perfettamente sano farlo con un umano così facciadasberle.
Certo, la mia pronuncia degna di un Rutelli dei tempi migliori non aiuta, ma il vero problema è senza dubbio la scarsa dose di fiducia che trasuda dalla mia voce e che la macchina, così sensibile e ben progettata, non può che avvertire. Ne soffre, poverina, e offesa non reagisce. Da qualche parte deve avere un sensore che misura la fede in un futuro migliore e la mia deve essere risultata una decina di volte sotto il valore minimo consentito. Così, come una fidanzatina del liceo con la quale usi troppe volte formule dubitative, essa rifiuta la mia autorità.
In più, come il mio interlocutore mi ha ripetuto circa trentasei volte in venti minuti, quello che ho indosso è un dispositivo wearable, qualcosa da portare cioè con disinvoltura, e io invece continuo a guardare il prisma in modo ossessivo, risultando ridicolo agli occhi delle persone in attesa dell’autobus.
Forse, ma di questo non sono sicuro, tutta questa goffaggine pone anche un problema d’immagine, ed è per questo che il mio contatto è sempre più indispettito. Non ho visto la scatola dei glass, ma può darsi ci fossero degli haiku in Helvetica che prescrivessero il divieto di girare per la città con i supercool google glass senza essere supercool a propria volta, e io ho tutte le sembianze di un’ottantenne arteriosclerotica alle prese con un nuovo videoregistratore. Appeso alle orecchie.
Se si fosse solo trattato di cliccare il triangolo che punta stabilmente verso destra ce l’avrei potuta fare senza grossi problemi, mi sarebbero bastate le istruzioni e un pomeriggio libero; il punto, però, è che parlare a una macchina è tutt’altra cosa, e rientra nell’ambito dei gesti che secondo la mia rigida educazione cattolica sono prerogativa esclusiva dei pazzi o dei divorziati, che nel solido ecosistema provinciale in cui sono cresciuto sono categorie contigue e talvolta sovrapponibili, come nel caso dei Discorsi adirati alla Renault 4 del signor Visentin del terzo piano del condominio dei miei.
Oltretutto non si trattava nemmeno di una macchina nel senso ottocentesco e virile del termine, tipo un’auto, un treno o un trattore Landini Testacalda pieno di grasso e parti meccaniche con nomi che solo chi piscia in piedi può conoscere, bensì un paio di occhiali color azzurro veste-di-putto.
A questo punto, però, ormai so anche come tirarmi d’impaccio:
«Take a picture»
(clic)
Con i Google glass il “Take a picture” è l’elemento base, il nuoto a cagnolino nel mare dell’oggetto preposto a guidare all’invasione del web 3.0, che sarebbe quello che esce dal computer e dopo averti intrattenuto con video di scimpanzé che si annusano il culo e averti permesso di cercare Rrose Sèlavy su Wikipedia mentre chatti con una studentessa del Dams mantenendo una fraudolenta superiorità intellettuale, ora esce dallo schermo e prende unilateralmente il controllo del pianeta. È la punta di diamante e il centro di controllo portatile dell’esercito fatto di droni volanti, taxi senza pilota, robot sorveglianti che occupano le cronache di questi giorni, sotto la scritta “prossimamente nelle vostre vite, che lo vogliate o pure no”. Segue risata diabolica, e proprio quando l’audio dovrebbe staccare si sente ancora qualcuno che chiede in inglese dove si può andare a mangiare biologico nella silicon valley.
Google ha di recente lanciato il nuovo algoritmo Hummingbird ovvero, come tipico nel vasto immaginario zoologico della Silicon Valley fatto di leoni di montagna, panda e leopardi da neve, un simpatico Colibrì che in linguaggio di Mountain View significa “D’ora in poi decidiamo noi cos’è importante e cosa no”. La novità, infatti, è che hanno deciso di creare una nuova gerarchia fra le pagine web, restituendo risultati decisi da criteri che vanno oltre l’intrecciarsi dei link, la popolarità delle pagine e le vostre ricerche precedenti (il famoso e arricchente eterno ritorno di quello che già ti piace) e hanno introdotto valutazioni di merito sull’attendibilità di pagine, smettendo cioè di comportarsi come meri archivisti e incominciando d’un tratto a dare giudizi, creare verità che riguardano la vostra vita con la stessa noncuranza con cui vostra zia che non aveva mai ascoltato “gangsta’s paradise” di Coolio si permetteva di giudicare i vostri pantaloni larghi della Energie.
Ma non capisci veramente la portata di questa novità finché non indossi i glass, il mezzo attraverso cui la svolta epistemologica di Google si esprime sul mondo off-line, ci si piazza sopra in trasparenza e te lo spiega come vuole lei.
«Cerca Funny Sushi» fa l’uomo degli occhiali
«Eh?»
«Cerca Funny Restaurant, Sushi!»
Penso: perché funny? E invece dico:
«Ma a me il sushi fa cagare…» poi però realizzo che tutto sommato è meglio provare con Sushi che non pronunciare Carrello dei bolliti in finto californiano.
«Ma sì, così vedi un po’ come funziona»
Per puro dovere giornalistico, qui di seguito sono elencate due possibili procedure per cercare del sushi se siete alla fermata del 13 in via Rizzoli a Bologna.
N.1 chiedere ad un altro essere umano, fare 120 metri ed essere pronti a tradire la più varia tradizione culinaria del mondo per un esotismo di bassa lega. Costo = euro 0, e rischiate pure di attaccare bottone con qualcuno
Oppure N.2:
1. Alzare la testa di colpo come presi da un’illuminazione mistica. Questo toglierà i Google glass dallo stand by e avrà il piacevole effetto collaterale di allontanare da voi la gente che sta aspettando l’autobus, regalandovi spazio vitale e una serie di indici che ruotano attorno alle tempie. 2. dire “ok, glass” anche nel caso nella vostra vita niente, ma proprio niente, fosse ok. 3. A quel punto l’occhiale è sintonizzato con il vostro ottimismo digitale di default e pronto a ricevere ordini. Dite “Search a Sushi Restaurant in Bologna”
4. Preparatevi a fare mezzo chilometro in più di strada, perché quello qui dietro, che poi sarebbe una pescheria che ad ora di aperitivo ti dà fuori il sushi, non è segnato su google maps. Costo = euro 1500 di Google glass + xxx euro di smartphone + xx euro di abbonamento internet + sbattimento che comunque vi meritate così imparate a mangiare pesce crudo giapponese quando abitate in Italia.
Però sushi non ce la faccio proprio. «Facciamo Restaurant» provo a patteggiare.
«E fai restaurant…» concede l’uomo che incomincia a vergognarsi di me più o meno quanto io mi vergogno di parlare con degli occhiali.
Eseguo, l’occhiale bontà sua obbedisce, forse per instaurare un vorticoso rapporto di dipendenza di cui solo i suoi algoritmi riescono a vedere le conseguenze sul lungo periodo, e Blip mi appaiono un po’ di ristoranti sulla mappa. Sfiorando l’asta destra dei glass si possono fare scorrere le foto delle loro vetrine.
Questa ricerca è andata molto meglio della prima, che era una semplice googlata in cui, in preda a un misto di mancanza di idee, devozione aziendale e paranoia per un mio pezzo andato per colpa mia online sbagliato, avevo chiesto all’occhiale
«Search Linkiesta»
e avevo dovuto fermare il mio contatto prima che prendesse a craniate il muro urlando:
«Come cazzo fa a capire “Linkiesta” in inglese???» Aveva ragione lui. Infatti sullo schermo era apparso questo
(Linkiesta secondo i Google glass)
L’uomo che mi accompagna e che mi ha fornito la tecnologia che promette una “realtà aumentata” è un giovane imprenditore di internet, nonché un mio affezionato lettore. Mi ha accolto come un fratello di silicio e mi ha presentato ai suoi dipendenti con un «ehi sapete chi è lui?» pieno di entusiasmo malriposto che ho cercato di contrastare sussurrando «lascia perdere, fidati» mentre fissavo le cuciture delle mie scarpe e cercavo di scavare il pavimento con la punta del piede.
«Ma no, no, è giusto che sappiano. Ti conoscono di sicuro»
«Lascia perdere, ti dico…»
Il preventivabile risultato è stato una serie di sorrisetti artefatti e sguardi di imbarazzo tipici di chi non vuole contraddire il capo né mortificare il suo ospite ma non riesce proprio a diradare il gigantesco “E CHICAZZO È?” sospeso nell’aria sopra le scrivanie. Adesso siamo qui alla fermata del bus e io temo che il prossimo compito sia il temutissimo Translate, ovvero chiedere agli occhiali di tradurre una frase che vi tragga d’impiccio durante i vostri viaggi. Stando ai video promozionali di Google è in grado di portarvi in un quartiere di Los Angeles dove la gente non parla in inglese e rendervi ridicoli di fronte a una cameriera messicana facendovi chiedere con la vostra pessima pronuncia la migliore specialità della casa. Sarei curioso di testarlo con i veri usi da viaggi nel mondo reale tipo “Siete davvero disposti a fare questo lavoro per un decimo di quello che mi costa in Italia?” o “per 50 euro lo prendi anche nel culo?” ma il mio contatto è stufo di aspettare l’autobus e prendiamo un taxi.
È indubbio che nonostante le resistenze e le goffaggini di persone come me, non ci vorrà molto prima che tecnologie come queste diventino di uso quotidiano e tutti gli elementi comici passino rapidamente nel dimenticatoio.
Anche per questo dico al mio interlocutore che sono preoccupato per la privacy, i glass sono in grado di filmare e fare foto a una definizione pazzesca e condividerle in tempo reale su internet dove rimarranno per sempre, senza che sia possibile accorgersene da fuori. Per non parlare dei sistemi di facerecognition che, benché vietati per il momento da Google, saranno realisticamente presto a disposizione dei servizi, della polizia e a quanto pare anche degli hacker. Una potenzialità devastante, in grado di cambiare non solo la vita quotidiana ma anche la forma politica delle società, e quel che peggio questi glass sono solo un prototipo. A breve le telecamere diventeranno così piccole da diventare sostanzialmente invisibili, e sul medio periodo le intenzioni dichiarate delle aziende hi-tech sono quelle di creare tecnologie compatibili con il corpo umano. Il giorno in cui rideremo dei Google Glass vedendone una foto proiettata direttamente dentro la nostra retina, come si ride d’immagini come questa qui sotto, è molto più vicino di quello che si pensi generalmente.
(Henry Ford, il Sergey Brin del secolo scorso, a bordo dei Google Glass del secolo scorso)
Ma bastano già gli occhiali per far passere il panopticon della sorveglianza digitale dal mondo di internet e delle telecomunicazioni al mondo reale in tempo reale. Tutti sotto controllo. Sempre. C’è quella frasetta che ti insegnano alle elementari: “la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri”, dovrebbe funzionare anche aggiungendo “di fare foto” e “di non voler essere fotografati” o “di non essere oggetto di un riconoscimento facciale da parte di un potere dispotico” ma anche questo è un principio, e i princìpi non sono ben visti nella corsa a velocità folle delle gigantesche aziende monopoliste di internet, il cui unico riferimento culturale è l’anarco-capitalismo, una complessa dottrina economica riassumibile nella massima facciamo quel cazzo che ci pare prima che lo faccia qualcun altro .
«La privacy non esiste» fa infatti il mio contatto, citando Zuckerberg non so quanto consciamente «Tu ti preoccupi della privacy ma il mondo non è diventato un posto migliore grazie a internet? Grazie a Google?»
«Non lo so, dipende, non è qualcosa di univoco. Google non è la penicillina»
E penso al mondo in cui internet ha messo in ginocchio il giornalismo, la musica e in generale i prodotti culturali proponendoli gratis e al tempo stesso offrendo intrattenimento alternativo sui social, sostituendo ad esempio la lettura dei libri con lo scroll delle foto di studentesse ubriache su Facebook. Un mondo in cui gli azionisti delle aziende tecnologiche realizzano ricavi smisurati, gli artisti fanno la fame e sempre più persone che lavorano in ambito culturale fanno fatica non a comprarsi la macchina nuova, ma a pagare l’affitto. Non è esattamente l’idea di progresso illuminista che si studiava sul sussidiario, quella cosa che si usava nelle scuole prima che il ministro dell’istruzione pensasse di incentivare l’uso di tablet, un dispositivo che fornisce agli studenti tutta la distrazione del mondo. Pensata geniale modellata probabilmente sul principio terapeutico di coloro che vogliono curare l’alcolismo con l’abuso di alcool, l’idea deve essere che al 150° livello di Candy Crush Saga per nausea ti verrà voglia di sapere anche qualcosa su Carlo Magno.
Mentre i decisori sopra i 50 anni guardano alla tecnologia con una profondità speculativa simile a quella delle scimmie di fronte al monolite in 2001 Odissea nello spazio, Google porta avanti indisturbata i suoi piani di egemonia planetaria. Dopo aver scannerizzato senza chiedere il permesso agli autori tutti i libri del mondo, secondo il New York Times in questo periodo sta cercando di completare la mappa del mondo, compresi posti come il Grand Canyon e le foreste. L’idea è mappare tutta la superficie terreste, sovrapporgli il sapere della rete gerarchizzato e munito di contenuti sponsorizzati da un’azienda privata, e poi rendere il tutto fruibile tramite dispositivi come i glass. Tradotto significa introdurre un’altra categoria agli apriori conoscitivi dell’essere umano e creare così quella che a Google chiamano la “realtà aumentata”. Più che un piano industriale è un progetto di mutamento antropologico e di dominio globale.
(La concorrenza dei Google glass non è particolarmente agguerrita)
Si è fatto buio, il taxi viaggia lento tra i portici di strada Maggiore e per qualche motivo con i glass addosso mi tornano in mente le passeggiate che da bambino facevo la domenica, in cui mio padre era solito dirmi il nome scientifico in latino delle piante che incontravamo sul sentiero. Non sarebbe stato affatto la stessa cosa se quei nomi li avesse chiesti a un paio di occhiali elettronici. Oggi li ho dimenticati quasi tutti, ma apprenderli da un dispositivo elettronico non mi avrebbe detto niente su mio padre, né mi avrebbe insegnato nulla sull’importanza della conoscenza, sull’autorità che ti fornisce, sulla fatica e la pazienza necessari per ottenerla, sul piacere di applicarla al mondo, dell’essere un soggetto cognitivamente attivo e non solo passivo di fronte al mondo. Quei nomi sono stata una piccolissima cosa che come tante altre, ugualmente minute ed umane, hanno influenzato molto la mia vita. Ancora oggi uno dei motivi per cui non voglio fare figli, oltre al fatto che credo che il regno delle macchine si avvicini e temo la claustrofobia isterica dei rapporti monogamici, è che non so i nomi in latino delle piante e quindi non potrei mai essere un bravo genitore.
Ripenso anche alla scheda bianca compilata con un inchiostro blu scuro della biblioteca delle mie scuole elementari, e al ragazzo poco più che ventenne che lavorava lì e segnava a mano sulla mia scheda di carta tutti i fumetti che prendevo in prestito. Ho rivisto quel bibliotecario lo scorso anno, il suo volto invecchiato di più di vent’anni mi ha fatto un effetto che un ebook scaricato da Amazon fra vent’anni non potrà mai fare, anche perché probabilmente sarà andato perso in qualche vecchio hard disk, nell’irrilevanza immateriale di tutto ciò che è digitale. Ricordo ancora perfettamente la breve strada che facevo (da solo, al contrario dei bambini di oggi) per andare da casa fino alla biblioteca e la soddisfazione che provai inattesa quando il bibliotecario dovette cambiare la scheda perché i titoli che avevo preso in prestito, nonostante avesse aggiunto a mano un paio di righe alla scheda, non ci stavano più. Fu il primo episodio di volontà di potenza intellettuale della mia vita (ok, erano quasi tutti titoli di “Asterix” e mi rendo conto che non sia esattamente come aver letto l’Eneide a 7 anni) e veniva molto dopo il piacere che provavo nel leggere quelle storie, ma c’era stato. Solo anni dopo avrei scoperto che quel sentimento era il nemico più insidioso della vita intellettuale e se gli lasci troppo spazio e ti dimentichi di sapere di non sapere è un attimo e ti ritrovi editorialista tecnologico su La Stampa. Quella era una piccola dimostrazione di volontà di potenza individuale che è al tempo stesso più profonda e soprattutto molto meno pericolosa di quella di un apparato tecnologico di scala mondiale che sogna di eliminare l’errore o l’ignoranza dal mondo. L’errore è la condizione necessaria perché possa esserci qualcosa di giusto e l’ignoranza è necessaria affinché si possa dare conoscenza, è nel percorso necessario per arrivare alla conoscenza che si trova la sua sostantivazione, anzi in tempi di relativismo è il percorso la vera conoscenza, molto più che il risultato in sé. La filosofia del XX secolo ha rinunciato a fornire una risposta univoca alle grandi domande dell’esistenza, ha abdicato alla pretesa di costruire grandi sistemi, ma questo non significa affatto che non sia lecita la pratica della domanda e della sua continua riformulazione.
L’atto del domandare è diventato più importante di quello del rispondere perché è l’unico che può rivendicare un fondamento nell’era del nichilismo. Così non c’è un altro modo che imparare quello che veramente conta nella vita se non sbagliando o venendo esposti alle asperità, ai rischi che non vorremmo correre o alle cose spiacevoli e dolorose. La ricerca perpetua da parte dell’esistente si contrappone alla verità sistematizzata dell’apparato tecnologico. Il destino tragico dell’uomo va molto oltre una query di ricerca e una risposta, è un percorso di asperità dal quale non si può sfuggire, come insegna ad esempio la storia della mia generazione, cresciuta pasciuta e ottimista davanti a David Gnomo e attualmente impegnata a fare la fame sottopagata, frustrata ma duramente decisa ad avere sempre un abbigliamento cool, delle cuffie audio ciccione e colorate qualsiasi cosa accada. Certe cose prima o poi devi impararle sulla tua pelle, non c’è un altro modo.
Sistematizzare tecnologicamente il mondo in maniera radicale, eliminare l’ignoto, l’errore e fornire questo servizio di protesi cognitiva è un sogno folle e devastante. Ed è in questo il nucleo fondamentale che il google-pensiero mostra tutta la sua pericolosa superficialità, un misto esplosivo di entusiasmo bambinesco e di volontà di potenza ingegneristica che può facilmente aprire a una deriva totalitaria. Sovrapporre alla realtà una gigantesca protesi di dati gestita da un’azienda privata più che un aumento, significa piuttosto una diminuzione (se non, in prospettiva, una privazione radicale) di alcuni aspetti fondamentali dell’intelletto e in senso più ampio un grave impoverimento dell’esistenza umana. L’ignoto è la necessaria controparte della conoscenza, così come la profondità, l’estrinsecazione empirica dell’atto di ricerca è quello che fornisce solidità alla scoperta, al mutamento dell’animo che si scolpisce nella persona che la fa.
(Nietzsche mentre passeggiando in Engadina controlla ossessivamente il suo facebook grazie ai Google glass e non lascia nulla alla posterità. Fotomontaggio Roberto Tubaro)
Nella protesi della rete tutto è sospeso, immediatamente e costantemente fruibile, scarsamente verificabile e soprattutto intimamente superficiale e passeggero, in primis per questioni biologiche che riguardano il funzionamento del nostro cervello, incapace di fissare nel profondo e schematizzare le nozioni passeggere, come argomenta fra gli altri Manfred Spitzer in Demenza Digitale (Corbaccio, 2013).
Tutte caratteristiche che rendono la sterminata massa di dati del web più simile a rumore che ad una pluralità di discorsi, in cui l’unica gerarchia rintracciabile è quella di un fornitore di servizi che attraverso gli sviluppi imminenti diventa fornitore di realtà. Non c’è più ricerca ma solo risultato, non c’è più spazio per il dubbio ma solo per la certezza. Il rumore di fondo diventa cifra del mondo e apre a derive politiche in cui l’uomo, ridotto dal web a individuo impotente e massa rabbiosa al tempo stesso, diventa particolarmente esposto alla retorica emozionale e semplificata dei populismi digitali.
L’uomo del futuro sarà privato per esternalizzazione delle sue peculiarità cognitive e dell’atto del giudizio, e vivrà inserito in un sistema di controllo e archiviazione dell’enorme impronta digitale che produrrà semplicemente vivendo. Una schedatura in grado di penetrare in profondo in ogni sua attività, passione, interesse e debolezza. Controllo assoluto e stupidità cognitiva, due concetti utili per pensare al futuro con ottimismo.
Quando arriviamo a destinazione faccio per pagare il taxi, ma il mio contatto mi anticipa, insisto, gli dico che la metto in nota spese ma lui non cede. Guardo il prisma in alto a destra del mio campo visivo, tutto tace ma se questa conversazione si fosse svolta nel futuro di qualche anno, sarebbe potuta apparire la scritta:
Da: Redazione Linkiesta
«E fallo pagare! Hai insistito una volta no? Bon»