Nel ricordo dell’apertura dei cancelli del lager di Auschwitz, il 27 di gennaio del 1945, ricorre nella stessa data la Giornata della Memoria. Un bel modo per celebrarla potrebbe essere dedicare alcuni dei propri pensieri anche alle persone – e furono tante – che hanno fatto molto per aiutare anche un solo ebreo, spesso mettendo a repentaglio la propria stessa vita. Sono tanti fiori spuntati nel fango di quegli anni, grazie ai quali oggi è ancora possibile guardare a un mondo a colori. Oggi sono tutti ricordati come Giusti tra le nazioni.
UN CAMPIONE COSÌ
Vorrei raccontarti una storia vera, così vera, che pare inventata.
Parla di un campione del ciclismo, la storia che ti voglio raccontare. Un campione un po’ brontolone, ma un campione vero, il più bravo di tutti nel suo tempo e tra i più forti di tutti i tempi. Uno di quei campioni che riempiono le pagine dei giornali e che, quando passano, la gente accorre sul ciglio della strada e si affaccia alle finestre e ai balconi, per seguirli nella loro corsa, per pochi secondi e poi via.
C’è un campione e c’è la guerra tutto intorno. Una guerra vera, la più guerra di tutte, sempre che si possa pensare che qualche guerra sia meno guerra di altre. Una guerra cupa, buia, terribile.
Il campione si chiama Gino Bartali, ne hai sentito parlare di sicuro in tivù o nei racconti del nonno. Bartali e Coppi, Coppi e Bartali, erano i due eroici avversari del pedale a metà del secolo scorso. Più anziano dei due, Bartali aveva cominciato a vincere già a metà degli anni Trenta, correndo su strade sterrate e fangose, spesso da solo, che il gruppo era attardato di un po’ e arrancava al suo inseguimento. Aveva già trionfato al Giro d’Italia e al Tour de France, alla Milano Sanremo e al Giro di Lombardia: erano più le gare che vinceva, di quelle in cui arrivava tra gli altri, oppure nelle quali cadeva, perché a volte cadeva anche lui.
Cadde, per esempio, durante il Giro del Millenovecentoquaranta, e tale fu il suo ritardo, al traguardo di tappa, che la squadra decise di puntare sul giovane Fausto Coppi, che quell’anno era suo compagno e si trovava molto meglio piazzato in classifica. Infatti Coppi vinse quell’anno il suo primo Giro d’Italia, dopo di che l’Italia entrò in guerra – la seconda guerra mondiale – e per qualche anno le biciclette furono lasciate nei granai. Già è faticoso pedalare per lunghi chilometri e salite, figurati se c’è il rischio di una bomba che ti esploda a due metri…
Ma Bartali era Bartali anche se c’era la guerra e gli anni erano bui: la gente lo amava e lo rispettava. I fascisti, in realtà, lo sopportavano di malavoglia, perché certo non era dalla loro parte, anzi, ma guai a toccarlo, che sarebbe stata la rivoluzione. E per non perdere l’abitudine e rimanere nel suo mondo, Gino si mise a riparare biciclette. Per mantenersi in buona forma, non c’era giorno che non si facesse un lungo giro tra i colli toscani e umbri, con i bambini che accorrevano esultanti e i passanti che lo salutavano levandosi il cappello.
Non c’è nulla di strano nel vedere un ciclista in bicicletta. Nulla davvero. Non c’è motivo di fermarlo e perquisirlo, per quella sua attività, che desterebbe sospetto forse per chiunque, ma non per Gino Bartali, campione affermatissimo.
Allora ne approfittò, Bartali. Pianificò dei bei giri, da Cortona a Firenze, da Terontola ad Assisi: di corsa da qua a là, una sosta per riprendere fiato, con un tè e due chiacchiere, poi di corsa da là a qua. Ma durante la sosta…
Durante la sosta alla bicicletta, poggiata nel retro della chiesa o dentro un fienile, mentre Bartali distraeva l’attenzione di ognuno, qualcuno toglieva la sella, infilava un dito nel tubo del telaio e da lì ne estraeva documenti e fotografie, arrotolati per bene, li nascondeva in fretta, quindi riposizionava la sella, dava una controllatina ai freni e se ne andava come se nulla fosse.
Erano di cittadini ebrei, quei documenti, da falsificare per portarli in salvo dalle repressioni e dalle deportazioni fasciste e naziste. E venivano salvati davvero, uno dopo l’altro, pedalata dopo pedalata, salita dopo salita, curva dopo curva, quasi mille bambini, donne, nonni, che dopo la guerra – perché la guerra, finalmente, cessò – ebbero un motivo in più per tifare per Gino Bartali al Tour de France e in tutte le altre corse a pedali.
Se lo avessero scoperto, i fascisti lo avrebbero fucilato all’istante, il campione, senza nemmeno lasciarlo scendere dalla bicicletta, ma anche per loro fu impossibile acchiapparlo, come accadeva ai ciclisti suoi avversari durante le gare. Non lo acchiapparono e, di nuovo in tempo di pace, Bartali tornò a vincere, pedalando e brontolando, e continuò a essere il campione che era. Con in più quel trofeo invisibile, che non prevede maglie rosa o gialle, né coppe o medaglie, ma sta inciso in un muro di Gerusalemme: Gino Bartali, campione, tra i Giusti tra le nazioni che si diede da fare senza pensarci un istante, perché anche se spesso è tutto da rifare, quasi sempre c’è qualcosa che si può fare.
Nel 1941 quasi mezzo milione di ebrei furono concentrati nel Ghetto di Varsavia, senza possibilità di uscirne. Molti di loro non sopravvissero alla fame, al freddo o alle malattie, molti altri vennero condotti ai campi di concentramento e all’inizio del 1943 ne rimasero non più di settantamila. Nella primavera di quell’anno, quando la sorte di ognuno era ormai chiara e segnata, il Ghetto di Varsavia insorse. La reazione nazista al solito fu violenta e spietata e l’intero Ghetto fu raso al suolo.
È di quei giorni una delle immagini più simboliche della Storia, scattata proprio dai nazisti per documentare il loro lavoro di repressione. Non ha bisogno di commenti o didascalie, e quel bambino con il berretto e i calzoni corti vive ancora oggi nella memoria di chi ne abbia incrociato lo sguardo impaurito.
È il 22 di luglio del 1941, siamo ad Amsterdam ed è in programma un matrimonio. Lo sposo, con l’elegante tuba sulla testa, passa a prendere la sua amata e, da una finestra della casa accanto, una ragazzina si sporge curiosa, per accompagnare con lo sguardo i due, che se ne vanno in automobile. Quella ragazzina è Anne Frank e queste sono le uniche immagini filmate che la ritraggono. Non sapeva che sarebbe diventata la Anne Frank che tutti conosciamo e avrebbe cominciato a scrivere il suo diario solamente un anno dopo.
Amsterdam è sempre una bella città da visitare: ci sono i canali, il museo Van Gogh e i quadri di Rembrandt e Vermeer al Rijksmuseum, ma un luogo dove non si può non fermarsi è la Casa di Anne Frank e della sua famiglia, con il suo alloggio segreto, lungo il canale di Prinsengracht. Lì c’è un castagno, che Anne ammirava volentieri e che ha anche descritto sulle sue pagine. Oggi anche tu puoi aggiungere la tua foglia a quel castagno, accanto a più di mezzo milione di altre foglie e pensieri.
Matteo Corradini – La repubblica delle farfalle – Rizzoli
Terezin è una cittadina fortificata, che si trova a una sessantina di chilometri da Praga. Durante la guerra fu scelta dai nazisti per tenerci migliaia di ebrei, spesso in attesa di essere poi condotti ai campi di sterminio. In quel ghetto hanno vissuto anche molti ragazzi, alcuni dei quali redigevano in segreto un loro giornale, il Vedem. Ben pochi di loro sono sopravvissuti allo sterminio.
Questo libro coinvolgente apre le pagine di quel giornale e ci svela i sogni e gli incubi, le speranze e le disillusioni, di quei ragazzi. È una storia che transita nella Storia, senza sconti, ma con una scrittura ricca di umanità.
Un Giusto tra le nazioni piuttosto noto, grazie anche al film realizzato una decina di anni fa, fu Giorgio Perlasca, che negli anni della guerra si trovava a Budapest, dove lavorava all’ambasciata di Spagna con il nome di Jorge. Con l’ambasciatore aveva organizzato una fitta rete di protezione dei cittadini ebrei e, quando la situazione politica peggiorò e l’ambasciatore fu richiamato in patria, lui si spacciò per console suo sostituto e proseguì nell’attività segreta. Più di cinquemila persone furono ospitate in ambasciata o in altri alloggi protetti; per ognuno Perlasca firmò e rilasciò un salvacondotto, rendendo tutti cittadini spagnoli e salvandone alcuni a pochi istanti dalla deportazione. Sotto questa sua veste collaborò con altri diplomatici e combatté contro il regime locale, riuscendo anche a impedire che il ghetto ebraico della città venisse raso al suolo.
Il dottor Carlo Angela, medico del paese di Bognanco, politico antifascista nei primi decenni del secolo scorso, era il padre di Piero, noto giornalista e divulgatore scientifico, nonno di Alberto, che però mai lo conobbe. Durante gli anni della dittatura fascista fu direttore della clinica per malattie mentali Villa Turina Amione, a San Maurizio Canavese, in provincia di Torino. Qui, durante i giorni più bui dell’occupazione nazista, non esitò a offrire rifugio a numerosi antifascisti, disertori ed ebrei, ricoverandoli come pazienti, dopo aver falsificato le loro cartelle cliniche: certificò inesistenti patologie psichiatriche, cambiò identità nei documenti e prescrisse lunghe cure e lunghe degenze. La polizia fascista, nonostante i sospetti e pure le minacce di fucilazione, non riuscì a interrompere questa sua opera e dall’anno 2001 anche Carlo Angela è accolto tra i Gusti tra le nazioni.
Era medico anche Giovanni Borromeo, primario all’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina, a Roma. Anche lui, nel periodo dell’occupazione nazista, ricoverò decine di ebrei romani, grazie a una trovata al limite del romanzesco: inventò di sana pianta una nuova malattia, che chiamò morbo di K, e certificò per tutti quella sconosciuta patologia. Per evitare troppi controlli e verifiche, Borromeo descrisse il morbo come estremamente contagioso, per di più senza una cura conosciuta, se non un caritatevole ricovero. Gli effetti descritti parlavano di ansia, demenza e atroci sofferenze. Intrigante anche la scelta della lettera K, che rendeva quell’invenzione un po’ tedesca quindi, visti i tempi, più plausibile.
Giovanni Borromeo continuò a curare i malati nel suo ospedale anche dopo la fine della guerra, potendo finalmente dedicare i suoi studi e la sua attenzione alle malattie realmente esistenti.
Villa Emma è un bell’edificio, di quelli che si trovano nelle città di pianura dell’Emilia: con il giardino tutto intorno, si trova alla periferia di Nonantola, in provincia di Modena. Nel 1942 un gruppo di una cinquantina di ragazzi ebrei sloveni trovò lì rifugio e accoglienza, grazie all’opera di un giovane sacerdote, don Arrigo Beccari. L’anno successivo si aggiunse un secondo gruppo, di una trentina di ragazzi ebrei croati e, insieme, tutti furono sostenuti anche dalla solidarietà della popolazione di Nonantola.
Con l’inizio dell’occupazione nazista la situazione precipitò e con freddezza, rapidità e coraggio don Beccari ci impiegò pochi giorni a nascondere tutti e trasferirli oltre confine, nella neutrale Svizzera. Fu poi arrestato, Arrigo Beccari, per questo e per attività antifasciste, ma non disse mai nulla e subì il carcere fino al giorno della liberazione.