Cos’è che tiene in piedi House of Cards?

There is but one rule: hunt or be hunted

“Fascino” è un termine del quindicesimo secolo e deriva da fascinum, che vuol dire letteralmente stregoneria, incantesimo nell’accezione possibilmente più negativa di magia nera. E in due stagioni di House of Cards, l’ultima delle quali uscita lo scorso 14 febbraio su Netflix (mentre la prima stagione arriverà da noi, su Sky, in primavera), Frank Underwood m’ha aiutato a capirne la natura.

Se state leggendo questo articolo è possibile che sappiate di cosa racconta la serie: l’ascesa al potere di un politico molto furbo alla Casa Bianca. Quest’uomo ha una moglie che si chiama Claire e i due sono sposati da ventisette anni; lei è molto vicina a Lady Macbeth, come si legge ovunque da un paio d’anni, e il prezzo che paga ogni giorno del suo matrimonio è il congelamento di una serie di emozioni, rilasciate raramente e solo in determinati contesti. Frank e Claire sono alleati fedeli. Persone la cui solitudine è spessa come una cappa, la cui casa è una fortezza dove nulla penetra se non le truppe nemiche quando è concordato e necessario a stipulare un accordo che quasi sempre si traduce in un divide et impera. Frank e Claire corrono insieme e questa è la migliore metafora della loro vita: “corrono” per una carica politica declinata nelle due metà della mela — presidente degli Stati Uniti e first lady — e cercano di non superarsi mai l’un l’altro, in questa corsa. Fumano, anche: la stessa sigaretta, vicino alla finestra. È il loro solo, vero momento di intimità e assomiglia più al consiglio tra un re e un ciambellano che a un atto d’amore. Solo che è amore, non di meno. È la loro versione dell’amore.

House of Cards si deve chiamare così per una ragione molto precisa: nel corso di due stagioni non si fa altro che guardare Frank mettere una carta sull’altra con precisione chirurgica, finché la costruzione non assomiglia il più possibile la visione del suo terzo occhio. Ogni tanto fa deliberatamente cadere un re di picche o una regina di cuori, e non senza spargimento di sangue; più facile è che faccia crollare un jack meno importante per infilare nella casa di carte una figura più rilevante.

È un buon momento per dirvi che, qualche tempo fa, ho (ri)beccato il terzo Batman di Nolan in televisione: mi sono sintonizzata nel momento in cui Bruce Wayne si propone di uscire dalla Fossa di Lazzaro, impresa praticamente impossibile riuscita in precedenza solo a una bambina. Tutti provano a fare il salto verso l’esterno con una corda legata in vita per evitare di maciullarsi in terra in caso di caduta, ma qualcuno dà a Wayne il consiglio definitivo: non ce la farai mai senza il terrore di perdere tutto, perché è quello che fa volare. Ecco, credo che lo sappia anche Frank Underwood; a ogni mossa la casa di carte minaccia di disfarsi, ma il punto è proprio quello. Il suo schema è vincente perché a ogni scelta corrisponde la possibilità di una totale distruzione. Lo osserviamo andare avanti con una stoltezza folle, nel disprezzo del pericolo, ma non è che non abbia paura: ne ha tantissima, ne ha continuamente, e qualche volta è raggelante o lo costringe a spaccare elementi del mobilio; ma la sua forza sta nell’incatenare quella stessa paura, nel farne una spinta quasi erotica verso il successo. In Batman-termini, Frank conosce l’angoscia del vuoto e la usa.

Tornando al fascino: è la sua arma. E mentre mi sparavo tredici ore consecutive di House of Cards e gli occhi mi cascavano, è stata questa idea a cementarsi progressivamente nella mia testa. Così mi sono chiesta cosa sia davvero il fascino e guardando Underwood agire ho pensato questo: è essenzialmente passione controllata (ovviamente anche la paura è una sorta di passione). Non si può essere magnetici senza essere perdutamente passionali in qualche parte di se stessi e il protagonista di House of Cards lo è troppo. È una persona che vuole con una forza superiore a quella delle persone che lo circondano ed è una voglia tale che la sua vita è determinata dalla necessità di gestirla; pena l’annullamento. Quel che emerge dai suoi discorsi, il suo straordinario potere di manipolazione verso chiunque si prefigga, viene dalla costrizione; dalla riduzione a uno di più sentimenti antitetici. Guardi Frank, interpretato divinamente da Kevin Spacey e non puoi fare a meno di lasciarti sedurre dalla belva che tiene dentro, legata da un guinzaglio d’acciaio. Credo che nessun personaggio nella storia della televisione di sempre sia dotato di altrettanto carisma e, di nuovo, credo che quel carisma sgorghi da un pazzesco scollamento interiore. Qualcuno di voi starà già pensando «e Walter White?»: sì, sono protagonisti con molte cose in comune, ma Walter è un giocatore minore, senz’altro meno esperto di Frank Underwood.

In ogni caso il gioco è condotto sempre all’insegna della precarietà. Le zampate dell’aleatorietà non spaventano Underwood. Sono la condizione necessaria e sufficiente dello schema stesso, il motore di tutto. E, infatti, quando si parla di controllo si parla anche di controllo dell’incertezza. Sono stata colpita dalla capacità di Frank di tollerarla, perché è il cuore della partita per arrivare alla presidenza degli Stati Uniti. La maggior parte di noi non è capace di accettare un pomeriggio vicino al telefono chiedendosi se una chiamata arriverà o no; Frank invece vive chiedendosi ogni momento se tutto finirà. Se andrà in galera, se verrà ucciso, se sarà declassato, se sarà in grado di mantenere la sua dignità. Non so come faccia. In House of Cards prende delle decisioni in grado di generare — al massimo — degli alberi di ipotesi che per quanto calcolate al millimetro risentono dell’influenza del caos. Eppure non cede. Gioca per vincere e vince con la resistenza psichica.

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