«Dammi risposte complesse» chiede il protagonista in Una storia l’ultimo, bellissimo, libro di Gipi. Lo stesso desiderio che è legittimo provare di fronte alla dichiarazioni dei politici a diktat come quelli della Electrolux sull’avvicinamento dei salari italiani a quelli polacchi, pena la delocalizzazione. Debora Serracchiani fa appello ad un’istanza di carattere morale, ricordando che quando Electrolux arrivò in Italia «Ricevette un sacco di soldi, qualche miliardo di lire, dalla Regione. Dovrebbe ora preoccuparsi di quello che lascia sul territorio dopo che l’ha spolpato» ma appare drammaticamente priva dei mezzi necessari per dare un seguito a questa considerazione. Vendola utilizza l’arma dell’indignazione «Come al solito chi paga è la vittima», Salvini evita il bisogno che si specifichi a quale partito appartiene sparando una bestialità senza senso «A questo ci ha portato l’Unione Sovietica Europea». Non dimenticare Stalin e le Clarks, Matteo. A parte l’impagabile neo segretario della Lega e la sua penna orgogliosamente intinta nella più bieca ignoranza delle forme politiche, di fronte all’inerzia in cui vengono risucchiati i politici in questi casi non si può fare a meno di rilevare come gli strumenti a loro disposizione siano pochi ed insufficienti.
Alcuni commentatori, anche su queste pagine, hanno avanzato la proposta di ridurre il cuneo fiscale per rendere competitivo il lavoro italiano. Una misura d’emergenza che promette di rimettere denaro in circolazione sì, ma levandolo a uno Stato già agonizzante, e soprattutto non si avvicina nemmeno lontanamente a quelle che sono le radici macrosistemiche del problema. Assomiglia molto di più a un palliativo, o una misura di corto respiro, come spesso sono le misure pensate dagli economisti.
Denaro rapido vs democrazia lenta
Per questo forse può essere utile allargare lo sguardo ad un’analisi più ampia della situazione attuale. Da quindici anni il nodo teorico sulla questione del lavoro industriale risiede nella discrepanza fra sovranità politica nazionale e orizzonti capitalistici globali. Nessun sindacato e nessun politico italiano può seriamente pensare di poter vincere sul lungo periodo la sfida sul costo del lavoro industriale con i Paesi emergenti. Alla lunga, nemmeno i Paesi emergenti di oggi potranno pensare di vincere la sfida del costo del lavoro contro i Paesi emergenti del domani. Ad esempio la politica delle free tax zones in molti Paesi del terzo mondo ha portato a cicli di delocalizzazione rapidissimi: il più delle volte finiti gli incentivi le multinazionali ripartono verso nuovi, detassati, lidi.
Questo perché il denaro è liquido, transnazionale, deregolato e ambito, il potere politico invece è localizzato, complesso, talvolta soggetto a incapacità e corruzione e anche quando funziona bene è lento, macchinoso e sta sempre sulle palle a qualcuno. Un certo grado d’inefficienza (auspicabilmente minore di quello di cui facciamo esperienza oggi in Italia) è l’inevitabile prezzo da pagare alla forma di governo democratica, ma non è nemmeno questo il cuore del problema.
Il nodo gordiano è l’incapacità delle nazioni più ricche di difendere il tenore di vita di larghe fasce della propria popolazione opponendosi a un certo tipo di prodotti non in quanto provenienti dall’estero, ma in quanto realizzati con un costo del lavoro troppo basso e per questo motivo gravemente patogeni rispetto all’ecosistema industriale interno. Non riescono in questo compito perché sono privi di una sovranità sufficientemente estesa territorialmente per affrontare efficacemente la questione.
(il destino dell’Europa? Art by Julian Beever)
Nonostante sia ormai chiara da diversi anni la natura del problema, le nazioni interessate alla concorrenza del lavoro a basso costo non sono riuscite ad unire le loro sovranità limitate e creare un fronte comune rispetto a un problema che erode rapidamente le condizioni stesse del loro benessere. Si sono fatte sovrastare e annichilire dalla libera azione dei mercati e dalla totale autonomia, o sarebbe meglio dire anarchia, del denaro, che al contrario gode di sovranità mondiale e, grazie ai progressi della tecnica, può finalmente sfruttare a pieno la sterminata ampiezza del suo regno.
In un simile scenario la ricerca del profitto privato, che imbrigliata in un sistema di garanzie democratico poteva generare prosperità, ha trovato enormi praterie fisiche, legislative e fiscali di fronte a sé in cui è stato libero di agire al di là del bene e del male, come sempre fa quando viene lasciata sola. La sua natura è infatti quella di essere un mero calcolo dei costi e dei guadagni.
Sam Polk, un ex broker di Wall Street, ha scritto sul New York Times come il suo capo criticando delle misure di regolazione degli hedge found avesse detto «Non ho la capacità mentale di pensare il sistema nel suo insieme. L’unica cosa che mi preoccupa sono gli effetti che questo avrà sulla compagnia».
Una perfetta summa di agire capitalistico. Non è infatti compito suo occuparsi delle conseguenze sul sistema, ma solo pensare a massimizzare gli utili. Molta parte dello storytelling dell’ultimo decennio ha cercato di denunciare la crisi morale ed etica della società, raccontando la crescente mancanza di limiti nella ricerca del profitto. In realtà è un approccio poco solido: non si tratta tanto dell’aumentare di ciò che è considerato “fattibile” dal punto di vista dell’agire capitalista, quanto di un inarrestabile declino dell’autorità regolativa, esterna ad esso. Un declino diretta conseguenza del processo di globalizzazione.
L’azione della ricerca del profitto privato nel mondo globalizzato assomiglia a quel vecchio telefilm americano in cui i banditi si liberano dello sceriffo che li insegue passando il confine di Stato, oltre il quale egli non ha più giurisdizione.
Davide Serra, il finanziere vicino a Renzi, ha dichiarato che trova «perfettamente razionale» la proposta della Electrolux. E in effetti lo è, ma solo dal punto di vista di un finanziere che opera su mercati globali. Il problema è che la politica nazionale non ha la forza sufficiente per opporre ad una razionalità puramente economica, un’altra che contempli anche il rispetto dei valori democratici.
I motivi del fallimento di ogni attività regolatrice di stampo politico su scala globale sono molteplici: l’ideologismo con cui il Wto, l’Fmi e la Banca Mondiale, istituzioni ad egemonia statunitense, fanno di tutto per stendere strade lastricate sotto i piedi del gioco delle “forze naturali del mercato”, aiutate dalla semplicità della formulazione del principio del laissez-faire e dagli enormi interessi dietro l’idea più semplice e al tempo stesso più fallimentare dei nostri tempi: il mercato si regola da sé. L’ideologia minima perfetta per tempi apparentemente post-ideologici: rilassati e lascia fare alla mano invisibile. Autoassolutorio e con vaghi echi onanistici. Per la cronaca il risultato è un mondo dove gli 85 individui più facoltosi possiedono una ricchezza pari a quella della metà più povera dell’umanità. Funzionare funziona alla grande, bisogna solo vedere per chi.
Le istituzioni che dovrebbero compensare l’avidità e l’istinto distruttivo delle forze capitalistiche obbligandole a produrre benefici sociali e rispettare le comunità in cui si trovano, in questa fase storica non riescono ad agire se non di rimessa e al ribasso. L’Europa al contrario di quanto ritiene il saggio Salvini, non è l’Unione Sovietica, ed è poco più che un’associazione di carattere commerciale anch’essa votata anima e corpo al dogma liberista. Il problema è che una volta accettato il principio della sacralità intangibile del mercato e del libero scambio, il massimo che si può fare in Paesi come il nostro è provare a rallentare il più possibile un processo d’impoverimento inarrestabile.
Agire capitalistico e agire democratico
Questa situazione è la conseguenza delle differenze e opposizioni fra agire capitalista e agire democratico e di come queste si sono modificate negli ultimi 30 anni. Il primo ha come unico principio regolativo la ricerca del profitto economico privato, il secondo cerca invece di trovare un bilanciamento fra le istanze economiche (fra cui appunto l’agire capitalista), sociali, culturali e morali all’interno di una comunità.
L’agire democratico è più ricco e variegato e, nella sua forma liberale, lascia dello spazio all’agire capitalistico per guadagnare quella ricchezza che poi riutilizza per finanziare gli altri suoi scopi. L’agire capitalistico è quindi originariamente una parte del tutto.
All’aumentare della ricchezza questa parte del tutto diventa sempre più importante, alimenta dipendenze e stili di vita opulenti e così facendo acquisisce un potere crescente. La situazione cambia radicalmente quando la parte si emancipa e acquista la capacità di agire (massimizzando i profitti) anche in altre realtà territorialmente distanti e autonome. Questo è l’effetto della globalizzazione.
Il dovere assoluto di massimizzare i profitti da parte dell’agire capitalistico deriva dai suoi doveri nei confronti degli azionisti e dal timore che la concorrenza faccia altrettanto. A questo proposito sono molti i casi di delocalizzazioni di aziende ancora perfettamente in grado di macinare utili, come ad esempio la manifattura dei tabacchi di Lecce, la più grande d’Italia, chiusa da British American Tobacco nonostante la filiale italiana della società nel 2009 avesse realizzato utili per 139 milioni di euro su 618 di fatturato.
(Nella foto l’agire capitalistico alle prese con l’agire democratico. Nella realtà l’agire democratico è più simile a un bar pieno di tagliagole che a una colombina, ma è ugualmente indifeso contro gabbiano-capitalismo. Ok, non è la metafora migliore di sempre)
La possibilità del capitale di muoversi, anzi l’imperativo di farlo se questo significa massimizzare i profitti, senza che il potere democratico possa opporvisi, segna il rovesciamento definitivo nella gerarchia di potere fra agire capitalistico e l’agire democratico.
Da ciò deriva in questa fase storica la forma mentis da piattino in mano con cui politici e opinionisti si rivolgono mendicando alle forze economiche. Di fronte alla concorrenza globale l’agire democratico ha perso potere e con esso la possibilità di adempiere ai suoi compiti e dettare la linea. Così facendo si è appiattito anch’esso sulla pura logica del profitto privato a cui tutto viene subordinato, degenerando in fenomeni corruttivi o nell’irrilevanza, oppure, nel caso particolarmente fortunato della nostra nazione, in entrambi.
Questo atteggiamento di subordinazione va persino oltre quelli che sarebbero gli attuali limiti del potere democratico. Anche ponendosi pienamente all’interno della logica del profitto, manca una generale coscienza diffusa del valore di mercato di uno Stato europeo come l’Italia. Una dimostrazione lampante l’ha fornita ad esempio il recente dibattito attorno la Web tax. Al netto del fatto che si poteva idearla in maniera più efficace, vogliamo davvero credere che Google rinuncerebbe ad un mercato come quello italiano se fosse sottoposto ad tassazione più vicina a quella cui sono sottoposte le aziende non-web? Questo significa veramente sottovalutare il valore del proprio mercato e quindi in un’ultima analisi della propria comunità. Un vizio molto diffuso in Italia. Al tempo stesso è un effetto pienamente spiegabile con quell’egemonia culturale che corrisponde all’egemonia dell’agire capitalistico su quello democratico.
L’equità e la coscienza del proprio valore economico collettivo vengono sostituiti dalla supplica al soggetto privato concepito come sommamente libero e indipendente. Si può discutere della sensatezza di porre come discriminante il concetto di equità in una trattativa economica, ma al di là della sua irrinunciabilità in una prospettiva democratica, quello che troppo spesso si dimentica è che esso può essere anche un valore di mercato. La schiena dritta ha un valore economico positivo quando quello che si sta trattando è l’accesso al proprio mercato interno.
Nelle circostanze invece dove non ci si offre come mercato ma, come nel caso Electrolux, in qualità fornitori di forza lavoro, un simile atteggiamento sarebbe certamente suicida e per questo che una simile debolezza nella contrattazione deve essere sostituita da un azione politica a livello internazionale, nel caso dell’Italia auspicabilmente europea. Il che è una cosa molto più complicata.
(Non solo le industrie ma anche i segnali stradali lasciano i Paesi europei più ricchi)
I problemi di una reale democrazia europea
Esistono infatti numerosi ostacoli a questo scopo, il cui superamento è tutt’altro che scontato e rappresenta una sfida durissima, forse impossibile. Un agire politico europeo che non si riduca come oggi al semplice avallo delle decisioni prese autonomamente dai soggetti economici, (in altri termini quindi una politica patrimonio esclusivo delle élite e delle lobbies ) necessita la partecipazione di massa delle popolazioni degli stati membri ad un autentico processo democratico. Il primo ostacolo a questo scopo è che per quanto esista un’indubbia identità storica e culturale europea non esiste un comune substrato linguistico, nè simbolico, né una comunanza assoluta di interessi strategici perché si possa pensare con facilità ad un autentico agire democratico su scala europea. La palude in cui è impantanato il parlamento europeo, una realtà in cui sguazzano indisturbati i caimani delle lobbies ne è la dimostrazione lampante. I problemi fondamentali trattati in quella sede vengono percepiti come distanti quando non irrilevanti dai cittadini dei singoli stati, spogliando di potere democratico un istituzione già tutt’altro che perfetta e riducendola ad ennesima “Camera del libero mercato” .
Torna qui il conflitto fra capitalismo e democrazia ma in una prospettiva efficentista. Mentre la logica del profitto ha una sola voce, quella immediata dell’interesse individuale, l’agire democratico afferisce alla ragione adulta e si sostanzia di valori culturali, tradizioni, sedimenti linguistici, barriere morali poste ad altezze diverse per problemi diversi a secondo del posto dove ci si trova.
Per quanto l’uomo sia un animale politico sin dalla nascita, l’incanalamento della sua attitudine sociale all’interno di un meccanismo democratico è un processo tutt’altro che scontato e mai concluso una volta per tutte. Per questo necessita un’ampia gamma d’istituzioni: dalla formazione, all’amministrazione, alla presenza di una forte opinione pubblica, tutte realtà oggi declinate su base nazionale.
Traslare il processo democratico su un livello europeo senza fare lo stesso con le istituzioni intermedie appare una strategia senza alcuna speranza di successo. Ma il più grande ostacolo a scuole, giornali, università e un esercito comunitari e il conseguente avvio di un nuovo pensiero politico pienamente europeo è senza dubbio il problema della lingua. Si dovrebbe forse usare l’inglese, che è la lingua del mondo ma anche quello di un Paese che non è entrato nell’euro? O il francese o il tedesco? È evidente che nessuna delle soluzioni appare ottimale. L’Europa non è stata fondata ex-novo come gli Stati Uniti d’America, è la culla millenaria della civiltà occidentale e le sue radici sono saldamente ancorate in un tempo in cui Stati di dimensioni ridotte potevano esercitare comunque ruoli di leadership. La piccola dimensione e la parcellizzazione è ancora oggi la sua cifra irriducibile. È la stessa storia a rendere l’Europa un patrimonio unico e inimitabile e al tempo stesso a porsi oggi come limite sulla sua strada. Possiamo lasciare discutere gli economisti e far circolare la merce ma senza una lingua condivisa non si può dare comunità e tutto quello che ne consegue, tra cui la democrazia europea quanto mai necessaria per affrontare efficacemente le problematiche che la libera circolazione delle merci crea e che per dogma ci si ostina a non vedere.
C’è poi un problema fisicodi percezione della sfera d’interessi del cittadino. È possibile appassionare l’opinione pubblica a problemi che apparentemente distano anche migliaia di chilometri, localizzati in luoghi dove le persone parlano un’altra lingua, hanno volti e tradizioni diverse e far capire che il modo in cui saranno affrontati laggiù potrà influenzare in maniera radicale la nostra esistenza qui e ora? Se l’economia si fa globale, la geografia emozionale delle persone, i loro centri d’interesse rimangono necessariamente locali. Un dualismo d’immaginario (locale vs globale) che si pone alla base di buona parte dello spaesamento contemporaneo.
Si aggiunga un’industria dei media classici in crisi profonda e irreversibile e i new media drogati dal bisogno di click e visualizzazioni. Un articolo sull’ultima regolamentazione sul lavoro in Polonia, potrebbe risultare importante al fine della formazione di un opinione pubblica europea, ma rischia di costare troppo rispetto alle visualizzazioni anche se lo si fa scrivere da uno stagista pagato in Chupa Chups. Uno dei problemi con la democrazia infatti è che quando non è sceneggiata da quelli di HBO non è per nulla sexy.
(nuovi media)
La mancanza di una lingua, strutture intermedie e un’opinione pubblica comuni hanno come conseguenza la situazione attuale in cui il leader del Paese egemone dell’unione la guida pensando a vincere le elezioni locali nei Länder, mentre l’Europa è circondata da paesi emergenti che ne minacciano il tenore di vita offrendo il lavoro a basso costo, Cina e India si candidano a ruolo di grandi potenze consumatrici di quelle risorse che sono tutt’altro che infinite e gli Stati Uniti tentano disperatamente di non perdere la loro leadership mondiale puntando tutto sul controllo tecnico, schedano l’intero pianeta e sviluppando nuove tecnologie le cui implicazioni siamo ben lontani da vedere nella loro interezza.
Come se questo non bastasse persino all’interno dell’Europa allargata ci sono realtà nazionali che hanno tutto l’interesse a propiziare l’erosione del potere industriale dei paesi più ricchi dell’unione vendendo mano d’opera a basso costo, scopo che corrisponde a quello delle élite economiche dei suddetti paesi di avvalersene.
Problemi che possono essere affrontati solo con lunghe e faticose mobilitazioni democratiche e mediazioni politiche dagli esiti incerti, il tutto mentre la logica transnazionale del profitto viaggia a velocità supersonica, in maniera diffusa, policentrica e apparentemente inarrestabile.
(No, ripeti pure. Cos’è che vorresti tu esattamente? Retribuzioni dignitose?)
Il tecnicismo
L’agire capitalistico funziona a un livello di complessità minore rispetto a quello democratico e se questo da un lato comporta che non prenda in alcuna considerazione, se non quando vi viene costretto, le conseguenze sociali delle proprie azioni, dall’altra gli garantisce un’efficacia incomparabilmente maggiore.
La tendenza in atto è così l’appiattimento dell’intero agire democratico su quello capitalistico, una sorta di fusione fra le due istanze, o meglio sarebbe dire assorbimento della prima all’interno della seconda. In altri termini: un mondo in cui ogni valore è riassunto nel denaro e che del denaro prende le sembianze.
La derivazione politica di questo appiattimento valoriale è il tecnicismo, per cui la politica, svuotata si ogni possibilità di azione, viene commissariata dalla forza vincitrice e usata per proporre dettami amministrativi mutuati interamente dall’ideologia neoliberista, seppur travestiti da scienza esatta e indubitabile.
Questa è esattamente la fase dove ci troviamo oggi, un buco nero di diktat negativi in cui ogni appello a valori che non siano l’utilità economica cade nel vuoto perché privo di forze reali e strutturate in grado di sostenerli e di una sovranità politica ampia almeno quanto i problemi che deve affrontare.
Una situazione da cui si può provare a uscire solo dando nuova sostanza all’agire democratico, internazionalizzandolo quanto più possibile e rivalutando pubblicamente la necessità del controllo democratico sull’agire capitalistico. Un controllo che, vale la pena di ripeterlo, non può avere senso su una base esclusivamente nazionale.
Solo la diffusione di un dibattito su questi temi può fornire l’avvio a un processo che sarebbe dovuto partire più di un decennio fa.
Inutile anche nascondersi che tutti gli elementi oggi cospirano nel definire una simile missione impossibile. In palio però c’è la sopravvivenza dello stile di vita europeo, la sua storia, la sua cultura e il concetto di democrazia sociale contro il tecnicismo ideologico neoliberista, per questo forse vale la pena di sperare di essersi dimenticati, in quest’analisi, di quell’elemento misterioso che spariglia le carte ma che ancora non riusciamo a vedere.