La vita politica, che pure gli scorreva facile e vittoriosa, gli è diventata un alimento crudo e grossolano da cercare faticosamente. Da strappare con fatica. Dunque Matteo Renzi vive le ore difficili del dubbio e dell’incertezza, lui che ama il rischio adesso non sa bene che fare, si muove su un piano amletico, d’ambiguità: prendere Palazzo Chigi a Enrico Letta o no? E Graziano Delrio, che ha qualche anno più di lui, gli si rivolge con un tono fraterno e amichevole quando nelle loro conversazioni private gli ricorda che l’azione è sempre meglio dello stallo, che il movimento è sempre preferibile al rimanere fermi. “E’ meglio andare a Palazzo Chigi, con tutti i pericoli, che restare nell’acquitrino”. E finora il talento creativo di Renzi in politica ha avuto l’irruenza di un fenomeno di natura, la stessa inesorabile determinazione. Ma si trattava sempre di battaglie elettorali: la conta interna al partito, la chiamata ai cittadini, le primarie… Adesso questo ragazzo ambizioso e finora sospinto dal soffio d’un felice destino ha invece a che fare con la manovra di palazzo, le sue regole di palude, le sue strategie polverose. Restare così, fermi accanto a Letta, per Renzi equivale a invecchiare. Ma scippare Palazzo Chigi al suo cinquantenne avversario significa forse mettersi nei guai, maneggiare la crisi economica e con un partito ancora indisciplinato e dei gruppi parlamentari che rispondono in gran parte ai suoi vecchi nemici sconfitti ma ancora prestanti, Bersani e D’Alema. Altro gioco altre regole. Il loro gioco e le loro regole.
Dunque la contingenza lo tratteggia con pennellate gravide e impietose. Circondato da troppi sguardi ostili e immerso nel vischio di Palazzo, per la prima volta Renzi mostra occhi ardenti di stanchezza. Quello che sta giocando non è il suo gioco, ma è piuttosto il gioco di Letta, è il gioco di Giorgio Napolitano, persino il gioco del Cavalier Berlusconi, che se ne sta zitto, lontano, ma intanto osserva pronto com’è a muoversi di conseguenza. “L’offerta di Palazzo Chigi è un trappolone per Matteo”, ha detto Paolo Gentiloni, con il tono affettuoso d’un uomo che ha esperienza e conosce le trame oscure di cui D’Alema e soci sarebbero capaci. “Facci caso”, suggerisce Gentiloni al suo amico Renzi, con una voce che fa trasparire le vibrazioni della preoccupazione: “Guarda chi ti spinge a sostituire Letta”. E sono soprattutto, oltre a qualche amico vero come Del Rio, gli avversari interni del segretario ragazzino: i giovani laburisti, i dalemiani come Stefano Fassina.
“L’idea che uno vince il congresso e il giorno dopo chiede di avere un governo più assomigliante a se stesso aveva senso solo nella Prima Repubblica e non adesso”, ha detto Renzi, come ad allontanare da sé non solo l’idea del rimpasto, ma anche quella della staffetta con Letta. Eppure l’idea d’ingrigire accanto a Letta lo tormenta, ha per lui l’aspetto straziante dell’incubo. E sa pure, Renzi, che il gatto D’Alema e i suoi amici lo aspettano al varco delle elezioni regionali in Sardegna e di quelle europee. Hanno trasformato il dispiacere della sconfitta nel farmaco del rancore, e sono pronti a far vendetta degli sgarbi subiti. E infatti si muovono in un silenzio disteso, tramano nell’ombra, aspettano un passo falso del segretario, una sbavatura, un errore qualsiasi, una flessione elettorale. Anche minima. Dunque l’immagine di sé alla presidenza del Consiglio ritorna alla mente di Renzi con le fattezze d’un approdo salvifico. Palazzo Chigi come un fortino da cui tirare i fili d’una nuova iniziativa politica, in attesa d’approvare la riforma elettorale e andare al voto.
Ma tutti questi pensieri gli devono costare fatica. Renzi appartiene infatti a una razza diversa, non vuole ricorrere alla preghiera e al baratto, alla saggezza sperimentata e antica della politica: l’equilibrismo, la trattativa serrata, l’arte morbida ed eterna che fu di Andreotti e oggi è di Letta. E se dovesse sedere sul trono di Palazzo Chigi, sarebbe invece questo il suo pane quotidiano, nei fragili equilibri parlamentari, sottoposto come sarebbe all’opposizione di Berlusconi e di Grillo. Ma ogni momento della vita richiede un diverso accordo dell’anima. E Renzi è – sì – fuori dagli schemi vecchi della politica, ma è anche un irruento, capace di mosse repentine, d’azzardi temerari. “Ci sono un premier è un esecutivo: è ora che comincino a fare le cose che hanno detto di voler fare”, dice Deborah Serracchiani, che con Renzi ha un rapporto forte e di solida amicizia. E queste parole suonano come un mezzo avviso di sfratto per Letta. Dunque sarà forse il carattere a vincere alla fine, ad imporsi nel folto dei dubbi che complicano la vita del segretario ragazzino. Palazzo Chigi per lui è un rischio, ma coloro i quali hanno sempre vissuto alla giornata ignorano la temperanza e la lungimiranza, virtù dei ricchi, virtù dei bennati. Così Renzi potrebbe anche dire di sì. Accettare il cimento. E farsi presidente del Consiglio…