Il secolo di Charlot inizia tra le felpe Fiat

La Febbre dell'Oro restaurato

Nacque un po’ così, un po’ per estro e un po’ per caso, quando un ventiquattrenne inglese di nome Charlie Chaplin, molto agile e già navigato attore, cresciuto nel music-hall di Soho e da pochi mesi sotto contratto a Hollywood, nell’attrezzeria della Keystone assemblò un po’ di stracci, mise su dei baffi e creò la più grande icona cinematografica del Novecento: Charlot. Raro caso in cui le traduzioni estere sono più belle dell’originale (Charlot è oggettivamente meglio di The Tramp), Charlot compie un secolo esatto: debuttò sugli schermi il 7 febbraio 1914 in un cortometraggio dal titolo Kid Auto Races at Venice, California. Sette minuti, diretti da Henry Lehrman, che spiegano una volta di più il comico come atto sovversivo: Charlot è un disturbatore delle riprese cinematografiche di una gara automobilistica, cerca continuamente di essere in scena con la sua bombetta e l’eterna sigaretta in bocca, ma viene menato e preso a calci perché si tolga di mezzo. Lui imperterrito non demorde. Tutti i personaggi guardano in macchina, realtà e finzione convivono indisciplinatamente nelle comparse e nella maschera irriverente del Monello, ancora lontano dalle tenerezze romantiche sociali del Vagabondo.

Ora, siccome il cinema è lo strumento – tuttora – più completo che la tecnologia ci ha consegnato per decifrare e restituire il mondo, esso contiene nel suo passato anche barbagli di presente. Oggi che si discute tanto di Fiat americana, Detroit che mangia Torino, Kid Auto Races at Venice, California ci fa vedere il logo della vecchia cara Fiat, ante-Lingotto ma intanto già a stelle e strisce, con un ragazzino che indossa una felpa precisa a quelle che si è inventato Lapo Elkann. Tutto già lì, in un film di cent’anni fa…

L’occasione per rivedere il debutto di Charlot ci è dato dalla riproposizione nelle sale di un classico di Chaplin, La febbre dell’oro, cui il cortometraggio seminale è abbinato. Dal 3 febbraio il film sarà in 70 sale italiane, ed è ovvio consigliarne la visione. Intanto perché il capolavoro era da Chaplin stesso considerato come il suo film più rappresentativo, ma anche perché l’opera è riportata alla sua bellezza originaria, quella della sua uscita nel ’25, ai tempi del muto, con la musica originale scritta dal geniale cineasta e soprattutto alla velocità di proiezione giusta. Film notissimo per alcune gag tra le più celebri della storia (il ballo dei panini, la capanna che barcolla sul precipizio, la trasformazione dell’omino in gallina), La febbre dell’oro affronta uno dei punti centrali della storia americana, la conquista del West da parte dei cercatori d’oro, e pur oscillando continuamente tra risata e tragedia, si spalanca su un finale rotondamente felice: Charlot diventa un milionario e trova anche l’amore, e non per la sua ricchezza raggiunta. Insomma, una felicità piena, che per certi versi fa da contraltare al periodo in cui Chaplin girò, tra i più agitati della sua vita: la prima moglie cui rimase sempre legato era ormai prigioniera dell’alcol, lui intanto mise incinta l’attrice protagonista sedicenne, Lita Grey, per cui dové riparare sposandola semi-clandestinamente in Messico (divorziarono in breve) e anche cercando un’altra interprete…

La riproposizione della Febbre dell’oro la dobbiamo al restauro della Cineteca di Bologna, istituzione autenticamente gloriosa della cultura italiana contemporanea, che con la famiglia Chaplin ha avviato da molti anni il lavoro di catalogazione e digitalizzazione dell’intero archivio del maestro del cinema. Proprio in quella miniera che si compone di 150 mila unità tra bozzetti, scene, scritti, fotografie, il massimo biografo chapliniano, David Robinson ha scovato l’unico romanzo che Chaplin scrisse, Footlights, mai pubblicato, e che gli servì come soggetto per Luci della ribalta, forse l’ultimo capolavoro del regista, uscito nel 1952.

Footlights, che è appena stato pubblicato per ora solo in inglese per iniziativa della Cineteca bolognese (sarà presentato martedì prossimo al British Film Institute alla presenza di Robinson e Claire Bloom, l’attrice co-protagonista di Luci della ribalta), fu ultimato nel 1948. Non era un bel periodo per Chaplin. Sentiva che il pubblico di un tempo, che lo aveva reso la star più grande del cinema e uno degli uomini più popolari del pianeta, non era più lo stesso. Dismessi ormai gli abiti di Charlot, impolverati e sdruciti più per il successo del sonoro che per il tempo passato, aveva consegnato l’ennesimo capolavoro, Monsieur Verdoux, ma alla presentazione la stampa fece solo domande sulla sua condotta morale, la vita privata, il presunto antiamericanismo… La sua arte era passata in secondo piano.

Pensò così di raccontare la storia di un clown ormai stanco e vecchio, Calvero, sul malinconico viale del tramonto, che trova un riscatto personale aiutando una giovane ballerina in disgrazia. Questo è Footlights, un romanzo che restituisce lo stato d’animo dell’autore sin dall’incipit dickensiano con la descrizione di un tentato suicidio:

«Nelle prime ombre del crepuscolo, mentre la luce dei lampioni di Londra si faceva più viva contro un cielo color zafferano, Thereza Ambrose, una ragazza di diciannove anni, stava scivolando fuori dalla vita; sprofondava nel buio di una stanza povera e angusta, in una delle strade secondarie di Soho.

La luce che entrava dalla finestra dava rilievo al suo profilo pallido, mentre la ragazza giaceva supina sul letto, il corpo appena sbilanciato oltre il bordo di un vecchio letto di ferro. Una cascata di capelli scuri si spandeva sul cuscino, incorniciando la delicatezza di lineamenti ora calmi, tranne la bocca che si contraeva in un tremito. Nella stanza, le tracce solite della tragedia: un flacone vuoto di sonniferi, una valvola del gas che emetteva un debole fischio. Faceva da contrappunto alla scena un organetto meccanico giù in strada, che intonava allegramente, a ritmo di valzer, una delle canzoni popolari all’epoca: Why did I leave my little back room / In Blooms…bur…y / Where I could live on a pound a week/ In lux…ur…y

Accompagnata da questo sferragliante ritornello, la vita solitaria e tormentata di Thereza Ambrose stava giungendo al termine».

Come s’è detto, da questo romanzo Chaplin trasse l’ultimo capolavoro, Luci della ribalta. E quasi in contemporanea divorziò dall’America. Sulla nave che lo portava in vacanza in Europa fu raggiunto da un telegramma in cui gli si faceva presente che era diventato persona non gradita sul suolo statunitense. Da anni era finito nel mirino della Commissione McCarthy per un sospetto di comunismo (e certo in questo non aiutò il suo totale ateismo). Chaplin si ritirò in Svizzera, a Vevey, per non lasciarla più. Al cinema non diede più niente di significativo. Col tempo fece pace con l’America. Nel giorno di Natale del 1977, all’età di 88 anni, morì. Ma la sua arte non finì quel 25 dicembre, non finirà mai, non smettendo di restituire, dal profondo di un’eredità immensa e non del tutto esplorata, inesauste scintille di genio del XX secolo.

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