Sanremo si dimentica in un baleno di Beppe Grillo e torna a essere il Festival della canzone italiana. Sì, quello fatto di noia e lentezza. Proprio quello di sempre. È bastata una sera, la prima, per fare scandalo. Poi, si è tornati a parlare di musica e del solito carosello Rai. Una serata, la seconda, che si può definire interlocutoria, dopo le urla del leader del Movimento 5 Stelle e le polemiche per la scarsa qualità delle canzoni proposte. Tuttavia, ci sono alcune speranze. Quella più viva? Il pensiero che, forse, il prossimo anno andrà meglio.
Fabio Fazio e Luciana Littizzetto hanno capito lentamente la lezione della prima sera. Di fronte al mortorio, salvato solo da Grillo e dai due disoccupati, i due conduttori del 64esimo Festival di Sanremo hanno cercato di risollevare le sorti del programma. Incuranti della flessione di telespettatori, i quali chiedevano un cambio di registro rispetto a “Che tempo che fa”, hanno deciso di riproporre lo stesso schema di sempre. Fazio come poliziotto buono del Festival, Littizzetto come Gianburrasca. Peccato che, alla lunga, il risultato sia stato poco apprezzato. Ok, è vero che “squadra che vince non si cambia”, ma a tutto c’è un limite. Le battute trite e ritrite, gli sketch che sanno di stantio, il ritmo lento e poco incisivo. Gli ingredienti di sempre, quindi. Peccato che il percorso di rinnovamento del Festival, invocato fin dai tempi della conduzione di Paolo Bonolis del 2009, sia solo un mero ricordo. Chissà se nel 2015, data in cui dovrebbe tornare Bonolis a solcare il palco dell’Ariston, cambierà qualcosa. Difficile, dato il conservatorismo della Rai.
Quello che è certo è che, almeno sul pubblico, il Festival ha sempre meno appeal. Basti pensare alle presenze in Piazza Bresca. Una volta fulcro della vita pre e post Sanremo, ora si è desertificata. Che sia la crisi, che ha ridotto la capacità di spostamento degli italiani, o che sia lo scarso interesse nel Festival, sempre più ritenuto un rituale stanco e difficile da rinnovare, Sanremo è diventato un appuntamento gradualmente meno sentito. Colpa anche di una voglia di osare che non esiste, che manca. E questo si ripercuote sull’intero programma, nonostante i cambi di formula, come l’introduzione della doppietta di canzoni per ogni big. Less is more? In questo caso, sì.
Le canzoni, il vero fulcro del Festival, nella seconda sono migliorate in modo significativo. C’era molta attesa per Renzo Rubino, ma la sua performance è stata agrodolce: la voce c’è, il testo pure, la musica latita. Molto piacevole invece Francesco Renga, che ormai è un abitudinario dell’Ariston. Allo stesso tempo, sia Riccardo Sinigallia, più celebre per essere leader dei Tiromancino, sia per Giuliano Palma hanno registrato il favore della sala stampa. La presenza di Palma ha risollevato, a opinione di chi scrive, buona parte della componente musicale di Sanremo, ma è troppo poco. Anche nella seconda serata si è proseguito con il sentiment della prima, ovvero con una sperimentazione musicale assente e un coraggio inesistente da parte delle case discografiche. In pratica, il sentore è che tutti abbiano cercato di andare sul sicuro, incuranti del risultato qualitativo, ma puntando solo su quello quantitativo. Tra iTunes e Spotify, bisogna sopravvivere. E lo si fa con canzonette quasi senza anima né corpo, non certo con canzoni d’autore. O almeno, non nel 2014, ovvero nell’epoca di X-Factor. I giovani? A parte Zibba, il vuoto assoluto. Poteva essere una piacevole sorpresa Bianca, ma l’inconsistenza della canzone è il segno di quanto sia basso il livello musicale di questa edizione di Sanremo. Ed è forse questo il cruccio peggiore. Interpreti con buone, in alcuni casi ottime, potenzialità mortificati da canzoni incapaci di rendere giustizia alla loro bravura.
Infine, che dire degli ospiti? La sala stampa è esplosa a sentire Claudio Baglioni. A dir la verità, lo stesso è successo per le Gemelle Kessler. Ma tutti attendevano il controverso Rufus Wainwright. Doveva essere il giusto seguito a Brian Molko dei Placebo, l’ultima rockstar capace di destabilizzare il palco dell’Ariston negli ultimi vent’anni, cioè nel 2001. Invece ha preferito anche lui la via del perbenismo in Fazio-style. Traduzione: ennesima occasione di noia. Però, a quanto pare, i dirigenti Rai sono contenti così. L’ultimo giudizio, come sempre, lo daranno gli ascoltatori.
Il momento più piacevole? Vedere Franca Valeri sul palco. Non tanto per lei, che rimane una grande a tutti gli effetti. Quanto per la volontà della Rai a rendere grazie, nel migliore dei modi possibili, a un’artista che ha fatto la storia della televisione. Quello più deprimente? Forse vedere che, nonostante i tentativi di rinnovamento, Sanremo rimane sempre quello di una volta. Peccato.