Ma dove sono le donne nella commedia italiana?

Sette ricercati, zero ricercate

Domenica scorsa ho visto al cinema Smetto quando voglio di Sidney Sibilia. È un film divertentissimo che ho consigliato letteralmente a tutte le persone con cui mi è capitato di parlare nell’ultima settimana, compresi semisconosciuti incrociati sul pianerottolo di casa mentre aspettavo l’ascensore, per due motivi che personalmente reputo molto importanti:

1) è fatto bene
2) fa ridere

notizia che, considerato che stiamo parlando di un film italiano, è clamorosa poco meno di «i velociraptor non si sono estinti ma vivono nel mio garage». Insomma, se ce l’avete a morte coi cinepanettoni, se il fatto che il cinema italiano faccia mediamente schifo vi crea imbarazzo a livello internazionale, ecco un film che merita i 7 euro del vostro biglietto: Smetto quando voglio di Sydney Sibilia.

Se queste righe suonano come uno spot è perché ci tengo che sia chiaro che Smetto (ormai ci diamo del tu e posso addirittura abbreviare il suo nome) mi è piaciuto un sacco e avrà sempre il mio sostegno. Però c’è un però. Un difetto che più ci rimugino sopra e più mi pare enorme, una cosa che ho messo a fuoco solo a proiezione terminata e di questo, devo ammettere, un po’ me ne vergogno anche: in questo film non ci sono donne.

O meglio, ci sono, ma vengono trattate talmente male che mi sarei sentito molto meno a disagio se non ci fossero state affatto.

Facciamo un passo indietro: la trama.

Pietro (Edoardo Leo) è un neurobiologo il cui futuro dipende dalla possibilità di strappare all’università un contratto a tempo indeterminato e i fondi per la propria ricerca; quando però i suoi sogni di stabilità economica si sfracellano contro l’ennesima porta in faccia, Pietro mette in pratica quello che sospetto tutti i ricercatori italiani si siano detti fra sé e sé almeno una volta nella vita: “vaffanculo tutto, io mi do al crimine”. Così, assieme alle menti più geniali dell’ambiente accademico romano, vale a dire un chimico finito a fare il lavapiatti, due latinisti che fanno i benzinai, un archeologo che campa di contratti a progetto da 13 anni, un antropogo disoccupato e un economista convinto di poter contare le carte a poker, Pietro inizia a produrre e spacciare una nuova droga, la migliore mai apparsa sul mercato, e per di più tecnicamente legale in quanto per la legge italiana una sostanza non è proibita finché non entra nell’elenco delle sostanze stupefacenti del Ministero. Sguiranno complicazioni.

Un Romanzo Criminale come potrebbero scriverlo gli autori di Boris, ma soprattutto un Breaking Bad all’amatriciana, declinato secondo la nostra attualità (Crisi batte cancro) e le corde del nostro cinema (commedia batte crime-drama), in cui la parabola di un professore precario che si prende ciò che gli spetta aggirando la legge assume il valore della vendetta di una generazione intera a cui è stato detto “studia e ti sarà dato” e ora a 30 anni vive coi genitori e maledice il giorno in cui non ha abbandonato il liceo per imparare un mestiere.

È praticamente impossibile non sentirsi chiamati in causa, per questo motivo Smetto quando voglio ha il rarissimo pregio di riuscire a parlare a un numero vastissimo di spettatori — ma perché allora la banda di Pietro è un club per soli uomini? Perché quando passa in rassegna “le migliori menti in circolazione”, a Pietro non viene in mente una sola collega di sesso femminile?

Non esistono donne intelligenti? Non esistono donne disposte a infrangere la legge? Non esistono donne che devono fare i conti con il problema dei tagli alla ricerca in Italia? O siamo più in area “la scienza e il crimine sono cose da maschi; alle femmine le materie umanistiche e tenere in ordine la casa”?

Facendo questo discorso in pubblico sono stato prontamente bloccato da un’amica al grido di «il pistolotto femminista su una commedia non lo voglio sentire, ti prego» e per un attimo ho vacillato: nessuno sopporta chi trasforma qualunque discorso in un’arringa sui temi del sociale, io per primo. Lamentarsi di come una minoranza non sia adeguadatamente rappresentata in un’opera di fiction, poi, significa infilarsi in una strada potenzialmente senza uscita: si inizia con le donne, poi ci si lamenta dal fatto che non è stato dato il giusto spazio alle persone di colore, quindi ai gay, ai disabili, ai mancini, agli anziani e si finisce a scrivere lettere infuocate agli autori di Doctor Who (è successo davvero) chiedendo perché il nuovo Dottore non è una donna nera bisessuale su una sedia a rotelle fatta con materiali riciclati.

Il fatto, però, è che non vedo come le donne possano essere una minoranza, visto che nel nostro Paese ce ne sono circa 52 ogni 100 abitanti (senza contare che sono sempre state la maggioranza del pubblico cinematografico da noi come in qualunque altro punto del pianeta), e come ragionare sull’opportunità di dare loro una caratterizzazione decente sia una questione politica e non di buonsenso.

Non molti in Italia hanno familiarità con il Bechdel test: nato da una gag su una striscia a fumetti del 1985 (ma probabilmente mutuato da una riflessione di Virginia Woolf nel ’29) si tratta di un questionario, un approccio adottato da un certo tipo di critica, che tende a prendere in considerazione un film o, più in generale, qualsiasi opera di fiction a partire dalla sua capacità di soddisfare tre requisiti apparentemente banalissimi: che vi compaiano almeno due donne, che queste donne parlino almeno una volta tra di loro, che quello di cui parlano non sia un uomo.

Come per ogni regola, è lecito essere elastici e indispensabile non pretenderne l’applicazione cieca e assoluta, non di meno, il numero di film (commercialmente rilevanti) che ogni anno passano il Bedchel è abbastanza sconfortante da farmi salite i sensi di colpa; inutile dire che Smetto quando voglio, non ci si avvicina neanche per sbaglio.

Al netto di un cast maschile composto da sette personaggi (più la guest starring di un Neri Marcorè, brevissimo ma intenso), tutti caratterizzati in modo diverso e tutti approfonditi quel tanto che basta da prenderli immediatamente in simpatia, i personaggi femminili parlanti sono tre, forse quattro, e si dividono sostanzialmente tra rompiscatole e mignotte.

C’è la fidanzata di Pietro (Valeria Solarino), il cui ruolo consiste nel ricordare a lui (e quindi a noi spettatori) che vendere droga è sbagliato, il che fa di lei, a seconda dei punti di vista, il baricentro morale della storia o la guastafeste: il fatto che ci venga descritta dal minuto uno come una scassapalle di prima categoria — che incolpa Pietro di cose che non dipendono da lui (la ristrettezza economica, il non riuscire a fare carriera all’università) o che dipendono dalla sua eccessiva generosità (lo umilia davanti agli studentelli a cui Pietro dà ripetizioni praticamente gratis), senza scordare il pianto greco del «passi troppo tempo con i tuoi amici» — non gioca esattamente a suo favore.

Poi c’è la “fidanzata” di Bartolomeo (il personaggio di Libero De Rienzo), incurante del rifiuto di lui a impegnarsi e comicamente ossessionata dal farsi sposare, al punto, nel finale, da portarlo all’altare con la forza. Per quanto il tutto non prenda più di un paio di scene e abbia un fine evidentemente umoristico, l’idea di fondo si sedimenta ulteriormente: le donne non sono nostre alleate, sono le guastafeste che vogliono limitare la nostra libertà (di essere single o di essere dei signori del crimine).

E infine ci sono le escort, che non hanno bisogno di presentazioni, si materializzano quando i protagonisti iniziano a godere dei frutti della propria attività criminale e fungono unicamente da indicatore del loro nuovo status economico: sono cose di cui chi è ricco si circonda, tu vedi delle attrici muoversi e parlare sul set, ma avrebbero potuto essere auto sportive e il senso sarebbe stato lo stesso.

Ora, niente di tutto questo è sufficiente a “rovinare” il film, resta il fatto che se sei un maschio hai a disposizione sette personaggi diversi in cui identificarti, se sei una donna puoi scegliere tra quella che chiede a Pietro i soldi per la lavatrice e quella che chiede a Pietro se vuole un pompino. È indispensabile l’identificazione con uno dei protagonisti per godersi un film? No, ma ho sempre trovato irritante che nella maggior parte dei casi solo ad alcuni (maschi, bianchi, eterosessuali) sia riservato questo privilegio.

Come correggerei Smetto quando voglioNeanche nel pieno del più folle delirio di onnipotenza mi sognrerei di “correggere” il film di qualcun altro. Al di là del più ovvio discorso sulla libertà di espressione, trovo che nessuna opera sia obbligata a insegnarci qualcosa, a dare il buon esempio o che altro. Non mi darebbe alcuna soddisfazione, né credo aiuterebbe in alcun modo la causa, costringere un film ad essere “politicamente corretto” (mi viene in mente l’ottuso senatore nel finale di Thank You for Smoking che combatte il fumo photoshoppando via le sigarette dai classici del cinema americano): il film è di Sibilia e Sibilia ci fa il cavolo che gli pare. Quello che vorrei è che a ogni autore brillante, intelligente e spiritoso venisse naturale immaginare un mondo in cui le donne sono persone anche loro.

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