Niente è perduto finché c’è Robert Redford

“All is lost”

Tutto può perdersi, tranne lui. Robert Redford con la sua chioma sempre bionda (con qualche tinta virata all’arancio) resta un punto irriducibile nello star system americano. Non che sia il più grande, o l’unico, o il più ricco, o il più potente tra i divi: è semplicemente il migliore. Il migliore a capire i tempi e cogliere le sfide autentiche del fare cinema, il più intelligente a dare uno spessore più profondo, politico, alla sua immagine splendida. Robert Redford. Il Migliore.

Cosa sono Ben Affleck o George Clooney, divi mondiali diventati autori con progetti politicamente impegnati su temi come la libertà di stampa, le missioni segrete, i retroscena fangosi delle campagne elettorali, se non nipotini di Redford? Il Redford Condor della Cia per Pollack, il Redford Woodward del caso Watergate per Pakula, il Redford Candidato per Ritchie. Il Redford che incredibilmente fu omaggiato dalla Hollywood degli Oscar come autore di “Gente comune” ma mai una volta come attore. Nonostante abbia interpretato meglio di tutti sullo schermo un’anima precisa dell’America, l’anima liberal, forse quella che piace alla gente che piace, ma che in lui aveva un carattere avvincente, profondo, convinto, non cosmetico. Il suo sguardo sempre pulito nelle vicissitudini dei suoi personaggi è sempre immunizzato dal peccato e dalla colpa, mai nevrotico come certi antieroi di De Niro o Pacino o Nicholson, crepuscolare ma non perdente come Hoffman, vitalistico ma non agonistico come Hackman, sfacciato come solo Warren Beatty ma più sfaccettato, più aristocratico, principesco ma non monumentale e inaccessibile come Marlon Brando e Paul Newman, un Grande Gatsby, che naturalmente interpretò, ma purificato, proiettato nei paradisi della vittoria però senza arroganza né presunzione. Non per caso Redford si è a lungo dedicato al genere più quintessenziale del cinema americano, il western, dove tratteggiò il cowboy nel cielo capovolto e kennedyano del johnwaynismo, facendone un pellegrino problematico, bisognoso di pacificarsi con l’eccidio pellerossa (il Kostner più famoso non è che una sua riedizione), solitario senza misantropia, camminatore delle profondità nella natura e nella gloria del paesaggio statunitense, come un picaro sentimentale o un cavaliere elettrico. I molti passi di una carriera tra la frontiera e il centro esatto del sogno americano, di cui forse è l’incarnazione più esauriente. Per non parlare poi del suo personaggio – quasi un unico personaggio declinato su varie sceneggiature – dello spaccacuore amoroso, matrice di un Mister Blonde contemporaneo che ha come epigoni Brad Pitt, Leonardo DiCaprio o Matthew McConaughey.

E ci sarebbe tanto da discutere della sua intuizione strepitosa di coltivare nelle sue proprietà dello Utah innevato una sorta di nuova Hollywood indipendente, organizzando da inizio anni Novanta quel gioiello che è il Sundance Film Festival, impostosi come modello di scouting e promozione di talenti per tutti i festival del mondo: lì sono stati lanciati Jarmusch e Tarantino, Nolan e Aronofsky. Basterebbe anche solo questo.

Un uomo di cinema a tutto tondo, perfetto, più consapevole e più generoso delle altre stelle hollywoodiane. In questi giorni nelle sale italiane un film ne rilancia la bravura, All is lostone man show che vede in scena solo lui, in una parte quasi del tutto muta, perso in mezzo all’oceano su una barca speronata da un container, sul limite della fine. Una prova di recitazione e anche di resistenza per il 77enne Redford, che recita in condizioni davvero proibitive. Il regista J.C. Chandor utilizza il divo più sperimentale per un film molto sperimentale, certamente a rischio noia in certi punti, ma riuscito. Un film sull’uomo, il suo istinto di sopravvivenza, la capacità di contrastare le avversità, il confine tra energia e disperazione. Ma soprattutto, idealmente e tangibilmente insieme, un film su Robert Redford. Fino a che c’è lui, niente è perduto.

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