Aziende agli stranieri? Importa solo come sono gestite

Made in Italy e M&A

Investitori stranieri impegnati a fare razzie dei gioielli del made in Italy? Il dubbio nasce a leggere le notizie degli ultimi mesi, tra Krizia finita nelle mani dei cinesi di Shenzhen Marisfrolg Fashion, Poltrona Frau in quelle degli americani di Haworth (in realtà l’operazione sarà completata ad aprile), la pasticceria Cova passata ai francesi di Lvmh, così come Loro Piana e prima ancora Fendi e Bulgari.

A guardare bene i numeri, tuttavia, l’allarme sulla “svendita dell’Italia” non è così ben riposto. «Innanzitutto va detto che la situazione economica, sia domestica, che legata al contesto internazionale, premia la crescita dimensionale e la riorganizzazione del sistema produttivo, che in Italia sono appannaggio di poche realtà», commenta Maurizio Dallocchio docente dell’Università Bocconi e autore di un report presentato nei giorni scorsi presso l’ateneo milanese. «A fronte di questo scenario diventa più facile per i gruppi esteri acquisire aziende di qualità nel nostro Paese».

Gli investitori dei Paesi sviluppati e di quelli emergenti hanno indirizzato i propri investimenti in Italia soprattutto verso realtà di eccellenza nei settori più competitivi e strategici dell’industria e del commercio italiano, come il settore della componentistica industriale, quello automobilistico e quello della moda. Nel corso degli ultimi anni, accanto ai Paesi tradizionalmente interessati alle imprese italiane (Francia, Usa, Germania, Regno Unito), hanno consolidato il loro interesse Paesi come India, Cina, Giappone, Corea, Qatar, Turchia, Thailandia.

Poco appeal per l’Italia

Siamo oggetto di una campagna di conquista? «L’M&A cross-border è in forte crescita negli ultimi anni», spiega l’esperto, «ma non c’è una corsa agli asset del nostro Paese». Lo scorso anno le operazioni di M&A condotte da soggetti esteri in Italia sono state 103, meno della metà rispetto alle 226 del 2008, anno in cui hanno cominciato a manifestarsi i primi segnali della crisi internazionale. Non solo: nel 2013 il valore di queste operazioni si è attestato a 9,1 miliardi di euro – cioè lo 0,6% del Pil italiano – contro i 35,1 miliardi di cinque anni prima. «I fondi di private equity e quelli sovrani possono contare su livelli record di liquidità e indicano nell’Emea (Europa, Medio Oriente e Africa, ndr) l’area più promettente per le acquisizioni», aggiunge Dallocchio. «Alla luce di questi parametri, l’Italia è ancora un mercato marginale: l’obiettivo dovrebbe essere quello di creare un clima migliore per l’arrivo di risorse straniere in grado di aiutare la ripresa».

Fendi, la proprietà francese punta sull’italianità del brand

Nessun timore, dunque, per i vari Valentino, Loro Piana, Star, Carapelli, Bulgari, Giugiaro e Lamborghini finiti nelle mani di aziende estere? Per Armando Branchini, vice presidente di Altagamma intervenuto alla presentazione, la nazionalità dell’imprenditore non ha rilevanza. «Conta solo se l’azienda è gestita bene o meno; se viene preservata l’occupazione e valorizzata l’italianità del brand». Una chiusura netta, dunque, alle polemiche degli ultimi mesi. Branchini cita un esempio in proposito: «Quando nel 1999 Lvmh acquisì Fendi, tanti osservatori ipotizzarono il declino per il brand romano, rilevando le sovrapposizioni con altri marchi del gruppo francese, a cominciare da Louis Vuitton. I fatti hanno dimostrato il contrario: un gruppo con spalle robuste e visione d’insieme può valorizzare al meglio ogni singolo brand in portafoglio».

Rischio bolla per alcuni settori

Più che alla nazionalità dell’acquirente, secondo gli esperti intervenuti alla tavola rotonda, bisognerebbe guardare con attenzione ai multipli delle operazioni per cercare di capire se non vi siano rischi di una bolla, destinata poi a scoppiare con ricadute negative sull’azienda, la sua storia e l’occupazione. In questo senso qualche elemento di preoccupazione arriva dal lusso, con operazioni condotte in porto nel 2013 a una media di 34 volte il price-earning, cioè il rapporto tra prezzo e utili. «Valori più vicini a quelli dell’M&A statunitense, che alla media europea», è il commento di Dallocchio. Più contenuti i prezzi praticati negli altri settori, dalle utility (22 volte il p/e) all’oil&gas (20), alla finanza (6,5).

Made in, la necessità di passare al contrattacco

Mutuando un’espressione calcistica si potrebbe dire che “la miglior difesa è l’attacco”. Dunque, data per acquisita l’importanza della crescita dimensionale, può essere utile cercare prede all’estero per puntare su mercati a più alto tasso di crescita. Lo scorso anno le operazioni cross-border condotte da aziende italiane sono state soltanto 17, con un controvalore di 5,7 miliardi di euro contro le 40 del 2008 e le 52 del 2007. «Occorre accelerare su questo fronte se davvero non si vuole rischiare il rischio di marginalizzazione, che impone di finire nelle braccia di un gruppo estero per sopravvivere», è la conclusione di Dallocchio.

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