Le mansioni sono le più disparate, tutte sotto il cappello di una professione non riconosciuta: dalla segreteria all’ufficio stampa, da ghost writer a esperti legislativi e consiglieri politici. In qualche caso si aggiungono faccende quotidiane come fare la spesa o scrivere le partecipazioni di nozze per l’onorevole. I collaboratori parlamentari vivono di luce riflessa, lavorano nel sottobosco dei Palazzi all’ombra di deputati e senatori per poi essere riconosciuti mediaticamente con l’etichetta di “portaborse”. Condannati all’invisibilità nonostante «mandino avanti la baracca» portando sulle spalle incarichi delicati e orari super flessibili. Negli anni si sono trovati a solcare praterie di lavoro nero e situazioni borderline: nel 2011 su 630 deputati solo 230 avevano assunto regolarmente un assistente. E gli altri? Non pervenuti. Eppure in busta paga i parlamentari ricevono una quota destinata alle spese per “l’esercizio di mandato”, specificamente riservata ai collaboratori. Per i senatori si tratta di 4.180 euro mensili, mentre i deputati ne intascano 3690. Soldi liquidi che entrano nelle disponibilità dell’onorevole il quale ha poi obbligo di rendicontare solo il 50%. Cifre per nulla irrisorie, se si pensa che ogni anno Palazzo Madama corrisponde 16 milioni di euro ai suoi inquilini per assolvere all’esercizio del mandato.
Soldi che si perdono tra creste e spese non sempre chiare. Così fanno molti, peones e pezzi da novanta: ci sono i casi celebri di Gabriella Carlucci e Domenico Scilipoti ma anche molti altri che scivolano silenziosi nei corridoi del Palazzo. Storie che rasentano l’assurdo come quella del deputato che licenzia l’assistente perché con i soldi destinati all’indennità dei collaboratori deve pagarci il mutuo di casa, oppure giovani che lavoravano in nero col paravento (imposto dai datori) di «volontari». Il malcontento è equamente diffuso nei due rami del Parlamento: trionfa il bicameralismo perfetto anche nei problemi e nelle rivendicazioni di una categoria professionale «inesistente» che continua a sentirsi calpestata. Se negli altri paesi europei e nello stesso Europarlamento ai membri degli staff parlamentari viene riconosciuto uno status con annesse regolamentazioni, in Italia non c’è un albo nè un inquadramento professionale. Figure indefinite che navigano a vista. Linkiesta ha raccolto lo sfogo e le idee di un gruppo di collaboratori che, per ovvie ragioni, decide di rispondere alle domande dietro garanzia di anonimato. In molti casi opera infatti il ricatto occupazionale perché «se vuoi vedere rinnovato il tuo contratto, ti conviene non alzare polveroni».
La parola d’ordine è eterogeneità. Il destino professionale dei lavoratori in questione viene inquadrato per lo più con contratti a progetto benché «spesso il progetto non sia chiaro», oppure con partita IVA, raramente con contratti di subordinazione a tempo determinato. «Non c’è mai stata la volontà politica di affrontare la questione». Eppure il ruolo degli assistenti ha regole uniformi nelle assemblee elettive di mezza Europa «mentre da noi – denunciano i diretti interessati – si continuano ad approvare ordini del giorno, cioè pannicelli caldi, coi quali ci s’impegna a risolvere il problema in un indefinito futuro». Chiedono legalità, che poi fa rima con rispetto: «Archiviamo una volta per tutte nell’immaginario collettivo il portaborse spicciafaccende e diamo dignità al collaboratore parlamentare anche in Italia come nel resto del mondo». Le condizioni di lavoro a Palazzo per loro non contemplano qualità, ma solo quantità: «Spesso parliamo di contratti a progetto da 500 euro al mese, sette giorni su sette coprendo ogni esigenza dell’ufficio: segreteria, stampa, studio e legislativo». Si fa tutto, tanto, sempre a disposizione dell’onorevole di turno.
Da anni i collaboratori, molti dei quali con curricula gonfi di lauree e master, chiedono che la cifra erogata ai parlamentari dedicata alle “spese per il mandato” venga liquidata solo in presenza di un contratto depositato presso la camera di appartenenza. Si tratterebbe di prevedere una serie di tipologie contrattuali specifiche di subordinazione a tempo determinato adatte alle mansioni di legislativo/ufficio stampa/segreteria, oltre a una forchetta per i compensi con importo minimo e massimo. I contratti verrebbero poi depositati presso la tesoreria della Camera di appartenenza che, solo ed esclusivamente su questa base, andrebbe a erogare lo stipendio al dipendente del parlamentare fino a quando il contratto non viene meno per scadenza naturale o per licenziamento. Trafila peraltro già in essere al Parlamento Europeo.
Per i collaboratori parlamentari lavorare nel dorato mondo di Montecitorio e Palazzo Madama è condizione incidentale, più croce che delizia. I privilegiati sono altri, cioè i loro capi: «Noi non apparteniamo alla casta, piuttosto somigliamo ai tanti coetanei laureati ultraprecari coi quali condividiamo l’angoscia di essere sottopagati e di non avere la possibilità di accendere mutui senza la firma dei genitori ed essere certi che la pensione non la vedremo mai». La situazione descritta a Linkiesta rasenta il paradosso: «Ci sono collaboratori con contratto a progetto che si troveranno a pagare l’Irpef di tasca propria perché il parlamentare – persona fisica e non giuridica – non è sostituto d’imposta. A saperlo prima non si sarebbero sentiti per nulla umiliati ad avere un contratto da colf, che offre questa garanzia oltre al Tfr». Una modalità, quest’ultima, che è stata attuata tra mille polemiche da alcuni onorevoli dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Molti collaboratori sono sopravvissuti ai governi, ma le disavventure lavorative si perpetuavano. «Finora non possiamo dire di aver visto risultato concreti, al netto dell’alternarsi delle varie presidenze, dei colori di governo». Ora, ripetono in coro, «possiamo riporre qualche timida speranza in una legislatura che ha tra i banchi di presidenza una paladina dei diritti degli ultimi, l’ex procuratore nazionale antimafia e giudice a latere del maxiprocesso, una sindacalista, dei grillini, eccetera». Senza dimenticare il presidente del Consiglio Matteo Renzi che nel curriculum annovera anche l’esperienza da collaboratore parlamentare di Lapo Pistelli, poi diventato suo avversario nella sfida per le primarie a sindaco di Firenze. Coincidenze e persone per dire che sì, il periodo potrebbe essere quello giusto. Tra ventate di rinnovamento e istanze di trasparenza, a Palazzo si parla anche di riforma del lavoro, ragion per cui l’esercito di collaboratori parlamentari torna all’attacco: «Il governo sta lavorando al Jobs Act e le camere stanno costituendo il ruolo unico dei dipendenti. Potrebbero essere due contesti in grado di facilitare anche la discussione sul nostro futuro».
Negli anni è stato ciclicamente asfaltato un sentiero di buone intenzioni e proposte di legge finite sul binario morto del disinteresse. Ogni tanto riemerge un servizio delle Iene o un articolo sui quotidiani, poi di nuovo le tenebre. I diretti interessati hanno provato a organizzarsi autonomamente: in campo il Co.Co.Parl, coordinamento di base fondato nel 2009 da una cinquantina di assistenti parlamentari per rivendicare diritti sindacali, mentre l’associazione InParlamento organizza corsi di formazione e promuove «la figura e le competenze dei collaboratori parlamentari». Nel 2013 sono stati i parlamentari, in ordine sparso, a sollevare la questione. All’inizio del loro mandato i presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso promettevano «garanzie» per il lavoro dei collaboratori parlamentari. Poi è stato il turno di Gianfranco Rotondi: «Da anni mi batto per chiudere la fabbrica di frustrazioni costituita dal turnover di esterni introdotti a Palazzo da tutti i partiti e destinati alla disoccupazione. Sono i sedotti e abbandonati della ‘casta’». L’ex ministro auspicava la regolarizzazione di tutti i rapporti di lavoro dei gruppi parlamentari, magari compensando il maggiore costo con un’ulteriore riduzione degli stipendi di deputati e senatori. Agli atti c’è anche un odg del Senato che impegna il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori «ad adottare misure idonee a disciplinare il rapporto contrattuale tra senatore e collaboratore», cui si aggiungono le prese di posizione di Fava (Sel), Khalid Chaouki e Valeria Fedeli (Pd). Fino all’auspicio dell’ultrarenziano Matteo Richetti che chiede di «scorporare i compensi dei collaboratori dalle retribuzioni dei deputati».
In attesa che gli ordini del giorno galleggianti in Parlamento prendano una strada certa, a Palazzo Madama è stato depositato un disegno di legge che porta la firma dei senatori del Movimento 5 Stelle, compresi gli espulsi Lorenzo Battista e Francesco Campanella, per far sì che i collaboratori vengano assunti direttamente dalla camera di appartenenza introducendo un inquadramento simile a quello del Parlamento Europeo. Sarebbero le amministrazioni di Camera e Senato a corrispondere il pagamento della retribuzione e degli oneri previdenziali direttamente al collaboratore sulla base del contratto che quest’ultimo stipula col parlamentare. La ratio è chiara nelle parole di Battista: «Finchè non si darà il giusto riconoscimento ai propri collaboratori il Parlamento come pensa di poter dare le risposte al mondo del lavoro?». Intanto la speranza dei diretti interessati al termine del colloquio con Linkiesta somiglia a una richiesta di normalità: «Vorremmo svegliarci un giorno, andare al lavoro e sentirci uguali ai colleghi del resto d’Europa e non svilenti portaborse, mercenari o free riders in attesa di nuova occasione professionale magari con raccomandazione. Questo dovrebbe essere un lavoro con regole riconosciute e chiare». Tutto qui, ma forse è già troppo.