L’Accademia e i Videogiochi

Tirature ‘14

Tirature è una pubblicazione annuale che esiste dal 1998. Nata per volontà di Vittorio Spinazzola, professore dell’Università degli studi di Milano e grande promotore dell’allargamento dell’attenzione critica a tutti i livelli della produzione letteraria, Tirature ha da sempre avuto un occhio di riguardo per le novità del mondo editoriale, o per quei settori della produzione editoriale che, per una specie di abitudine snobista dell’Accademia, sono sempre stati emarginati, a volte addirittura ignorati.

Negli ultimi 16 anni, ovvero nelle 16 edizioni che precedono quest’ultima Tirature ‘14, Spinazzola ha sempre tentato di dirigere l’occhio di bue della critica accademica verso gli angoli remoti del palcoscenico culturale, occupandosi di fumetti, di romanzo rosa, di romanzi gialli, anche prima di questi ultimi anni, prima cioè che questi prodotti diventassero una delle fonti di sopravvivenza dell’editoria mainstream.

Seguendo questa tradizionale attenzione a ciò che, solitamente, sta ai margini dell’attività critica e intellettuale dell’Accademia, Spinazzola e i suoi collaboratori — moltissimi provenienti dalle fila dei suoi epigoni, ovvero dai professori del dipartimento di Filologia moderna della Statale di Milano — hanno puntato la propria attenzione al mondo dei videogiochi, ormai innegabilmente al centro della produzione narrativa e creativa dell’industria dell”entertainment in tutto il mondo.

Al fianco di contributi di alcuni tra i migliori professori dell’Università di Milano, come Bruno Falcetto e Gianni Turchetta, nello speciale monografico di questo Tirature ‘14, dedicato ai videogiochi e al mondo virtuale, c’è anche spazio per voci esperte esterne rispetto all’Accademia, come Paolo Interdonato e Federico Bona.

Ma ci sono due ulteriori novità quest’anno. La prima è che, se negli ultimi 16 anni, infatti, il volume veniva stampato dalla casa editrice Il Saggiatore con la collaborazione della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, questa volta è stata presa la decisione di produrre l’annuario soltanto in versione digitale, abbassando il prezzo, cercando così di arrivare a un pubblico più vasto e, ça va sans dire, più digitale. La seconda è forse ancora più interessante, perchè acquistando la copia digitale di questo ultimo Tirature, si avrà l’accesso all’intero archivio dei numeri precedenti. Non male.

Di seguito pubblichiamo un estratto del contributo di Bruno Falcetto. Si intitola Ci riguarda. Considerazioni non specialistiche su come ragionare di videogiochi, ed è un punto di vista interessante sulla mancanza di un vero dicorso «generalista», per così dire divulgativo, sui videogiochi, sulla mancanza di «un tono giusto, che sappia non cadere nell’esortazione didascalica, evitare il tecnicismo degli accademici, non scivolare nell’impressionismo giornalistico, scansare l’entusiasmo ingenuo da colonizzatore di nuovi ambienti culturali».

Ecco il testo, per la cui pubblicazione ringraziamo il Saggiatore e la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.

Ci riguarda. Considerazioni non specialistiche su come ragionare di videogiochi
di Bruno Falcetto

Manca oggi un discorso generalista sui videogiochi che – al di là degli specialismi accademici e della partigianeria di «sviluppatori» e giocatori – eviti anche il qualunquismo di certi media, affrontando l’argomento con tono equilibrato per restituire la complessità di un settore in rapidissima crescita e indagare l’importanza di scrittura e narrazione al suo interno. 

I videogames possono non riguardarci? Quanto contino oggi lo dicono le cifre. I numeri dei titoli in commercio, dei giocatori, delle ore giocate, delle imprese che li progettano e realizzano, dei siti che ne parlano. E del fatturato complessivo dell’industria videoludica, che da qualche anno ormai ha staccato quello del cinema. Ma: ne stiamo ragionando abbastanza e come si deve?

Difficile dire che non se ne parli. Le parole sui videogame scorrono, mi pare, in quattro grandi ambiti. C’è il discorso accademico, quello degli operatori dell’industria videoludica, quello dei giocatori e quello dei media. Tre settori in cui il discorso è d’indole, in vario modo, specializzata, in cui ritorna una rete di termini chiave, perché – come dice Zach Waggoner nel titolo di un suo volume recente – anche qui words matter. Le riflessioni sono spesso molto competenti, condotte prevalentemente dall’interno del mondo del videogiocare, segnate da un forte investimento personale che può renderle penetranti.

Nel caso dei game designers e delle tante altre professionalità di un’impresa profondamente collettiva è un coinvolgimento economico e tecnico- culturale, le considerazioni e discussioni nascono dalla chiara conoscenza dei complessi processi produttivi e progettuali necessari perché un titolo possa venire alla luce. Estetico-ludico – e dunque anche esistenziale – per quel che riguarda i giocatori. Che a dispetto dello stereotipo del ludofilo vampirizzato dal mondo senza finestre del videogame, non solo spesso giocano insieme (ben prima dei e non soltanto nei giochi multiplayer on line) ma parlano tanto fra di loro: smontando, confrontando, giudicando titoli e meccaniche di gioco, o raccontandosi e rimeditando partite ed esperienze vissute, con il gusto dell’intenditore che vuole mostrarsi capace e affinarsi, o quello del viaggiatore di ventura che tante ne ha viste affrontate e scampate, e narra e testimonia per bisogno di condivisione e per compiacimento narcisistico.

Certo con i modi duttili, quasi eruditi, entusiasti o aggressivi, informali informalissimi del discorso dei fan. (Detto per inciso, le forme «istituzionali» e i linguaggi elaborati dagli appassionati di cinema, letteratura, musica, sono uno dei fenomeni e dei meccanismi di metabolizzazione della cultura più rilevanti del secondo Novecento, che attende ancora di essere davvero studiato e messo in connessione con altri elementi del sistema comunicativo).

Più libero e disinteressato sarebbe invece il discorso accademico, in sviluppo progressivamente accelerato. Con un netta distanza fra noi e i paesi anglosassoni, come mostra soltanto una veloce consultazione del catalogo di una libreria on line e il relativo numero delle voci estratte. Ma non di rado appesantito dalle esigenze di idioletto. E con un problema non banale di legittimazione, come – e più – di quanto accade ad altri settori di studio di prodotti culturali popolari. 

Quelli che ho richiamato fin qui sono discorsi fatti da chi sa abbastanza o molto di quello di cui sta parlando. Tante volte faticano a filtrare fuori dagli spazi istituzionalizzati della sfera videoludica (aziende, giocatori forti – come si dice lettori forti –, università). Al contrario le parole dei media vedono poco e male il mondo dei videogiochi, ne propongono immagini parziali, deformate, ristrette. È un discorso a folate, fatto di insistenze e ossessioni, di rimozioni e smemorataggini. I videogame abbandonano gli utenti al demone dell’aggressività, li plagiano favorendo uno scatenamento delle pulsioni peggiori. O invece li consegnano allo spirito dell’inerzia, che li sottomette e li isola.

Manca mi pare un discorso «generalista» informato, capace di sottrarsi alla trappola degli unilateralismi, alle amplificazioni gridate, insomma alla forcella esecrazione/entusiasmo, catastrofismo/apologia, che interferisce con tanta parte dei ragionamenti d’oggi sui paesaggi culturali tecnologici in cui viviamo. Servirebbero articoli, saggi, volumi agili che svolgano rispetto alle riflessioni interne al mondo videoludico (di operatori, giocatori e professori) un lavoro di divulgazione e insieme di interrogazione e richiesta. Ci vorrebbe poi (comunico un altro imbarazzo che mi sto portando dietro) un tono giusto, che sappia non cadere nell’esortazione didascalica, evitare il tecnicismo degli accademici, non scivolare nell’impressionismo giornalistico, scansare l’entusiasmo ingenuo da colonizzatore di nuovi ambienti culturali. 

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