Il dibattito parlamentare di questi giorni ha portato nuovamente in primo piano il tema della rappresentanza femminile nel nostro Parlamento e in generale nella politica italiana. Ma qual è la situazione ad oggi in Italia e in Europa? E soprattutto, davvero un emendamento all’Italicum avrebbe garantito maggiore parità fra generi?
Dopo la bocciatura di ieri degli emendamenti sulla parità di genere la scelta finale sulle candidature nei listini rimane saldamente in mano agli organi di partito. La presenza di collegi piccoli e nessuna garanzia sul sistema di selezione delle candidature potrebbero ridurre il numero di donne elette nella prossima tornata elettorale. Attualmente, il Parlamento Italiano è composto per il 28,4% da donne, una percentuale sopra la media europea ma comunque sotto ad altri Paesi altamente popolati come Spagna (36,3%) e Germania (31,8%). È inoltre interessante notare, che in Europa, con l’eccezione di Danimarca e Finlandia, tutti i Paesi con più di 30% di donne elette in Parlamento, hanno una qualche forma di quota, a livello di partito o di legge elettorale nazionale (sempre sul numero di candidati e mai sul numero finale di eletti).
Alla luce di questi dati, sembrerebbe che le quote di genere siano sostanzialmente l’unico modo di garantire maggiore equità in Parlamento. Tuttavia, alcune esperienze a livello europeo frenano l’entusiasmo circa l’efficacia di tali regole.
Fra i Paesi europei solo Spagna, Francia, Portogallo, Belgio e Slovenia hanno introdotto l’obbligo di quote rosa in Parlamento (ma in oltre la metà dei Paesi Ue alcuni partiti politici hanno adottato le quote di partito volontarie o facoltative per le loro liste elettorali).Tuttavia, come si evince dalla tabella sottostante, non sempre tali regole hanno aumentato significativamente il numero di donne.
Tuttavia, come si evince dalla tabella sottostante, non sempre tali regole hanno aumentato significativamente il numero di donne in parlamento.
Ad esempio in Spagna la legge in materia di quote, approvata nel 2007, richiede che nelle nessuno dei due sessi oltrepassi il 60%. Tuttavia, i risultati della prima elezione nazionale dopo l’introduzione di questa norma hanno deluso i sostenitori, poiché non si è verificato alcun cambiamento nella rappresentanza delle donne alla camera dei deputati. Una possibile spiegazione è che le regole di posizionamento in lista non abbiano dato uno stimolo abbastanza forte ai partiti, infatti, la Spagna aveva già da prima un livello di rappresentanza femminile abbastanza alto (di oltre il 30 per cento ). Vista la percentuale relativamente elevata di donne nel nostro parlamento, tale rischio avrebbe potuto palesarsi anche in Italia.
Come regola generale, nel considerare l’applicazione di leggi che prevedono quote di genere bisogna tenere conto delle caratteristiche dei sistemi elettorali, per fare in modo che la quota si adatti al sistema elettorale in vigore per l’organo elettivo. Questo nodo fondamentale può determinare il successo o il fallimento di una qualsiasi riforma. Ad esempio, per poter sortire effetti in collegi uninominali, le norme in materia di quote dovrebbero essere applicate guardando ai seggi sicuri o conquistabili come nel caso delle liste di sole donne del partito laburista britannico mirate a seggi vacanti.
Nel caso dell’Italicum, un semplice inserimento di una quota tra i candidati non avrebbe provocato nessun effetto sul numero di donne elette a causa della grandezza ridotta dei collegi e del basso numero di potenziali eletti per lista per collegio. Inoltre, avrebbe lasciato la possibilità ai partiti di rispettare la quota candidando le donne in posizioni non eleggibili. Una correzione della quota di genere che avesse imposto anche l’obbligo di alternanza tra i generi sarebbe stata la modifica più forte e allo stesso tempo la più efficace.
Gli altri due emendamenti, entrambi riguardanti solo la percentuale di donne presenti in posizione di capolista, avrebbero potuto sortire effetti sicuri solo per i partiti maggiori, certi di eleggere almeno il capolista in ogni collegio. Un’ulteriore complicazione sarebbe derivata però dalla possibilità di candidature multiple (con un massimo di otto) approvata ieri dalla Camera: questo sistema avrebbe potuto permettere ai partiti di rispettare la quota pur mantenendo un numero effettivo di candidate donne molto basso.
In realtà in Italia, a livello comunale, le quote di genere esistono già. Nei comuni con più di 5000 abitanti si vota con il sistema detto di “doppia preferenza di genere”, approvato nel 2012. Questo sistema elettorale prevede che nessuna lista possa presentare più di due terzi dei candidati dello stesso genere. Inoltre viene data la possibilità agli elettori di esprimere fino ad un massimo di due preferenze, che vengono ritenute entrambe valide solo se date a candidati della stessa lista di genere diverso; in caso contrario, solo la prima viene ritenuta valida. Infine, essendo il sistema un proporzionale a liste aperte con preferenze con un numero molto elevato di candidati, la scelta finale spetta in ogni caso sempre agli elettori, che non sono obbligati ad utilizzare lo strumento della doppia preferenza e che comunque hanno un ampio bacino di candidati di genere maschile (ad oggi il più rappresentato) tra cui scegliere.
Analizzando le caratteristiche della legge nelle sue parti, la componente della quota può essere vista come un modo per evitare eccessivi squilibri nella composizione delle liste in quanto non impone la piena parità ma permette un’efficacie applicazione successiva della doppia preferenza.
Questo sistema elettorale permette quindi di vedere gli effetti della legge in tre aree che maggiormente possono influenzare la presenza femminile in politica: il numero di donne interessate alle candidature, le preferenze degli elettori per candidati di un genere o di un altro, e infine il sistema di selezione delle candidature a livello di partito.
Confrontando due diversi campioni di comuni – il primo composto dai comuni che hanno votato nel 2013 applicando la nuova legge che prevede la doppia preferenza di genere, il secondo composto dai comuni che hanno votato dal 2010 al 2012 con la legge elettorale precedente – possiamo analizzare la riforma del 2012 sotto questi aspetti. I risultati delle ultime elezioni sono stati inoltre confrontati con quelli degli stessi comuni nelle tornate elettorali precedenti.
Un primo effetto della legge della doppia preferenza di genere è mostrato dal grafico sottostante che mostra la percentuale di donne elette nei consigli comunali per il campione di comuni che hanno votato con la legge del 2013 confrontato alla percentuale di donne elette per il campione di comuni che hanno votato prima dell’introduzione della legge.
I due gruppi mostrano un percorso parallelo per tutte le tornate elettorali ad eccezione dell’ultima. Infatti, il campione di comuni che ha votato nel 2013 ha il 35,4% di donne elette, contro il 17,6% dell’altro campione. Procedendo con successive analisi l’effetto causale della nuova legge si può quantificare con maggiore precisione. In particolare la legge ha portato ad un aumento del 18,9% di donne elette nei consigli municipali che hanno applicato la nuova legge rispetto a quelli che hanno votato quando questa non era in vigore.
Questo effetto è più forte nelle regioni del Sud, in cui l’iniziale percentuale di donne elette era più bassa e quindi la legge può aver avuto un effetto maggiore.
Questo risultato conferma come lo strumento della doppia preferenza abbia raggiunto gli obiettivi del legislatore di riequilibrare la rappresentanza di genere nei consigli comunali e allo stesso tempo come gli elettori abbiano accolto positivamente la sua introduzione.
In aggiunta, un effetto indiretto della legge è stato l’aumento del 14% di donne nominate nelle giunte comunali come assessori. In particolare, nei comuni sotto i 15000 abitanti, il Sindaco può scegliere i candidati solo tra gli eletti in consiglio comunale. Questo risultato può quindi essere interpretato come un aumento relativo dell’importanza delle donne nelle dinamiche interne alla politica locale.
Infine, i risultati dell’analisi non evidenziano differenze significative tra i due campioni per quanto riguarda il livello di istruzione degli uomini eletti al consiglio comunale (1). Nonostante questo sia un indicatore solo parziale, sembrerebbe che questo tipo di legge non influenzi in positivo – ma nemmeno in negativo – la “qualità” dei consiglieri eletti dei consiglieri eletti, smentendo una delle prime critiche fatte alle leggi che hanno come obbiettivo il riequilibro della rappresentanza di genere, cioè di ridurre il livello di competenza degli eletti eleggendo donne meno capaci degli uomini che hanno sostituito.
Vista la decisione di ieri della Camera dei Deputati rimane ai partiti la responsabilità finale sulle candidature nei listini bloccati. Spetta ora a loro garantire un sistema trasparente per la selezione della futura classe politica che siederà in Parlamento. A livello europeo molti partiti hanno adottato sistemi di quote, ma l’alternativa delle primarie per la scelta delle candidature dei parlamentari, unita all’utilizzo della doppia preferenza di genere potrebbe portare ad una maggiore efficacia, grazie a una elevata competizione interna al partito e a una ridotta distorsione causata dalla quota di un terzo di candidature femminili.
(1) Indicato con il numero di anni d’istruzione