Com’è uscito, Sotto una buona stella di Carlo Verdone ha conquistato botteghino e attenzione mediatica, dimostrando l’indiscutibile capacità di Verdone a essere sintonia col pubblico. Dopotutto, resta pur sempre l’attore più simpatico del cinema italiano, e tra i migliori nel suo genere, battezzato anche sul piano internazionale con la partecipazione a La grande bellezza glorificata dall’Oscar e molti altri premi ancora.
Quanto all’opera in sé, Sotto una buona stella non si distacca molto dagli ultimi ventitré anni di irrilevanza della sua filmografia: ventitré sono gli anni che ci separano da Maledetto il giorno che t’ho incontrato, suo capolavoro e tra le più belle commedie sentimentali del nostro cinema. Dopo di allora, genuine risate, grande mestiere e qualche sporadico graffio: ma niente più di significativo.
Sotto una buona stella conferma questa linea. Ce ne accorgiamo sin dalle prime scene, quando nella festa iniziale pompa la musica ballabile, arriva una telefonata che porta una notizia tragica, e come nel peggiore didascalismo narrativo il ritmo sfuma a vantaggio degli archi drammatici e distesi con viole e violoncelli che introducono il lutto. Orrore!
Come Virzì con Il capitale umano, come Francesco Patierno con La gente che sta bene (ecco un film particolarmente brutto), anche Verdone punta lo sguardo sulla crisi e utilizza il personaggio di chi maneggia soldi ed è travolto dagli eventi per provare a parlarci di quel che sta accadendo nel nostro Paese. Come Virzì, a un certo punto — anzi subito — tira il piede indietro, per mancanza di coraggio verso la realtà, per incapacità di volerla affrontare con mezzi adeguati, e fa dei personaggi poco più che figurine, e anzi la crisi e il lavoro e il disagio diventano un puro sfondo per schermaglie familiar-amorose, con qualche divagazione sui giovani che emigrano, la solitudine della maturità… Il tutto raccontato con una fotografia fuori tempo (del veterano Ennio Guarnieri) zeppa di zoom da film tv anni Ottanta, spiegoni in sceneggiatura più lunghi dei dialoghi, una voice over del tutto decorativa. Per fortuna (a ben venti minuti dall’inizio) interviene Paola Cortellesi a risollevare un po’ l’animo del film, con una prova di bravura: speriamo che sul set ne abbia tratto giovamento la giovane scoperta bertolucciana Tea Falco, figlia di Verdone nel film, una che parla con accento catanese indipendentemente dalla geografia dei suoi personaggi: ma un po’ di dizione, no?
Restano radi colpi ben assestati, degni di entrare nella splendida antologia verdoniana: l’happening lirico casalingo con tanto di rievocazione del leggendario festival dei poeti di Castelporziano, il provino musicale, qualche scambio Verdone-Cortellesi. Ma il risultato complessivo è sostanzialmente modesto.
Visto che ormai in Italia si fa quasi solo commedia, è alla commedia che bisogna guardare per verificare cosa si muove nel nostro cinema. E pur non piacendoci affatto questa uniformità di genere che ha un rischioso effetto anti-creativo e forse anche anti-produttivo a lungo andare, registriamo con piacere alcune novità meritevoli. Due esordi. Smetto quando voglio di Sydney Sibilia e Una domenica notte di Giuseppe Marco Albano. Il primo si è fatto valere sul fronte incassi pur non avendo dei campionissimi nel cast, ed è un film innanzitutto ben scritto (dal regista con Valerio Attanasio e Andrea Garello). Anche qui l’ingombro anche drammatico della realtà mette sempre un po’ paura all’autore, che nelle sue dichiarazioni ci tiene sempre a sottolineare il sostanziale disimpegno dell’opera e la inesistente intenzione di fare critica sociale — come se fosse un reato…
Ad ogni modo la storia dei ricercatori universitari che si fanno criminali per sbarcare i lunario è allestita bene, con grande credibilità dei singoli personaggi, con uno studio autentico delle psicologie e anche delle rispettive conoscenze culturali (chi è neurobiologo, chi latinista, chi matematico finanziario), restituiti bene da una squadra di attori affiatata: anzi il lavoro attoriale è la vera forza, più della realizzazione tecnica e stilistica, di questo buon film.
In poche sale da un paio di settimane, Una domenica notte di Albano, al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti molto premiati, è un film da incoraggiare. Il primo appunto positivo è per l’attore principale, Antonio Andrisani, anche cosceneggiatore, davvero bravo nel costruire il suo personaggio, Antonio Colucci, regista di provincia in Basilicata, autore vent’anni prima di un horror uscito solo in Germania e oggi alle prese con la ricerca di soldi per il suo secondo film. Senza volere caricare il film di eccessivi pesi e aspettative, colpisce come — pur nella disparità infinita di mezzi e anche di ambizioni — questo personaggio di artista perdente, schiacciato dalla realtà e per certi versi da una predestinazione fatale al fallimento, e in aggiunta alle prese con la scomparsa di un gatto, ricordi il bellissimo Llewyn canterino di “A proposito di Davis” dei fratelli Coen (si badi che il film lucano è stato girato ben due anni e mezzo fa). Peraltro alcuni richiami al cinema del duo americano sono chiari: un hula hoop che fa capolino, la stralunatezza di alcune figure di secondo piano, una certa ferocia nei rapporti tra alcuni personaggi (in particolare li litigi tra il regista e un attore bambino: spassosissimi). Tutto condito con strizzate d’occhio cinefile (con quei Cristi della Basilicata da Pasolini a Gibson, avendo sempre presente Ciprì e Maresco) spesso giocate coi dialoghi: «Ho capito, rischio di passare per lo Shyamalan all’italiana»; «Secondo me Barbara Steele è l’attrice più arrapante che sia mai esistita»; «Ma poi scusa, i gatti non hanno nove vite?», al che risponde lei «Sette!», e quindi lui: «Ah già, quelle sono le code… Grande Dario!».
Una domenica notte è stato fatto con pochi soldi e in certi punti si vede. Alcuni passaggi narrativi sono un po’ bruschi e il finale più che aperto sembra appeso. Ma il personaggio di Antonio Colucci merita di diventare un piccolo cult. Da vedere.