Il nuovo romanzo di Davide Orecchio, il secondo, appena uscito per Il Saggiatore, si chiama Stati di grazia ed è un romanzo potentissimo, contraddistinto da un linguaggio ricchissimo, cesellato e coinvolgente: un’autentica perla nel panorama italiano contemporaneo, i cui autori principali — con poche eccezioni — non sembrano lavorare molto sulla lingua.
Ma Stati di grazia non è solo un esercizio linguistico, è anche una grande storia, che abbraccia luoghi e tempi diversi, dalla Sicilia degli anni Cinquanta all’Argentina dei Settanta, mettendo in fila storie di difficoltà, di fuga, di clandestinità, di prigionia, di esilio. Insomma, è un grande romanzo, come se ne leggono pochi ormai in Italia, anche perché, negli ultimi anni, l’orizzonte di attesa del pubblico è molto cambiato.
Di queste, e di altre cose, abbiamo parlato con l’autore, Davide Orecchio, che abbiamo incontrato poco prima della sua presentazioni milanese, su un tavolino della Libreria del Mondo Offeso. Ecco quello che ne è venuto fuori.
Nel tuo nuovo romanzo hai usato una lingua molto particolare, musicale, ritmata, complessa. Perché questa scelta?
Forse potrebbe sembrare un linguaggio ostile nei confronti del lettore, forse l’apparenza è questa, come se fosse un ostacolo messo apposta per chiedere uno sforzo. Ma in realtà non è così, sotto questa apparente ostilità c’è prima di tutto una esigenza di comunicazione da parte mia, un’esigenza che rivendico. Perché quello che si legge in pagina è il risultato di un grande sforzo che ho fatto, di una fatica. Anche gli eccessi, la musicalità, il ritmo, la struttura della lingua e la sua varietà sono tutti elementi su cui ho lavorato per avere un effetto contrario, ovvero per coinvolgere, catturare e invogliare il lettore a seguirmi.
La tua prosa mi ha ricordato quella di Vincenzo Consolo, che poco più di vent’anni fa, nel 1992, con un romanzo pazzesco come Nottetempo, casa per casa, ha vinto lo Strega. I lettori di oggi sono in grado di apprezzare un tipo di romanzo come quello, linguisticamente ricchissimo e lavoratissimo, un po’ come il tuo?
Certamente il lettore medio è cambiato, e molto. E l’editore probabilmente si è conformato a questo cambiamento, e lo ha anche accompagnato. È chiaro che non si scrivono gli stessi romanzi di vent’anni fa o di trenta. Lo diceva anche un autore che ha quasi vinto il Premio Strega, Emanuele Trevi, che in un passaggio di Qualcosa di scritto, ha scritto che dagli anni Novanta in poi abbiamo assistito a un cambiamento antropologico della lettura e della letteratura. Lui parlava di Petrolio, di Pier Paolo Pasolini, che riappare negli anni Novanta come un reperto fossile degli anni Settanta e nessuno infatti lo capì, era un oggetto letterario per l’appunto fossilizzato, che non rispondeva più all’orizzonte d’attesa dei lettori che nel frattempo si erano formati su altro: una nuova generazione di lettori, ma anche di editori.
Secondo te è un processo che nasce dal pubblico o dagli editori?
Non lo so, ma penso che sia stato un fenomeno frutto di una serie di cause ed effetti culturali più vasti, nel senso che tutto il mondo della cultura, con tutti i suoi input, le sue sollecitazioni dalla televisione ai mass media fino agli editori, ha modificato il modo di interagire con gli oggetti culturali, quindi anche con i libri, con la letteratura,quindi anche con la lettura. Non me la sentirei proprio di imputare la colpa solo a un editore, è un fenomeno ben più vasto.
Il tuo libro ha anche una trama complessa e articolata, che si compone di tante storie, quasi come fossero singoli racconti. Come sei riuscito a mantenere quella tensione linguistica senza perdere il controllo della storia?
Beh, tutto nasce dalla storia, è la prima idea, da lì ho cominciato. Anzi, come hai detto giustamente, più da una storia, dalle storie. Difatti una definizione di Stati di grazia che secondo me funziona perfettamente — e che già ho usato in altre occasioni — è “romanzo di racconti”, racconti che piano piano si tessono gli uni con gli altri a formare la trama generale.
Per mantenere quella tensione linguistica ho lavorato molto, cambiando, correggendo, riscrivendo, rimodellando il testo. In generale mi sembra che l’attività della scrittura ultimamente sia cambiata, anche grazie ai mezzi tecnologici noi torniamo costantemente sul testo, è un lavoro simile a quello del cesellatore, dello scultore, un lavoro artigiano. Ed è così che anch’io ho lavorato, costruendo il mio linguaggio.
Da un certo punto di vista, come dicevo prima, è cambiato il modo di scrivere da parte degli scrittori, nel senso che è diventato un continuo processo di revisione e di riscrittura. Da un altro punto di vista però, forse anche più interessante, in questo periodo le forme e le attività della scrittura e della lettura — senza badare a quale sia la loro qualità — si sono potenziate, non depotenziate. L’essere umano legge e scrive molto di più ora rispetto a venti o trenta anni fa, grazie soprattutto alla rivoluzione digitale. Certo, potremmo addentrarci a vedere cosa si legge e cosa si scrive, e forse la gran parte è robaccia, ma io credo che sia molto probabile che ci sia anche una parte di questa produzione che qualche valore e qualche fattore di bellezza ce l’ha. È un po’ un paradosso. Senza dimenticare il problema che, probabilmente, si legge e si scrive troppo, e che di conseguenza la soglia dell’attenzione e la concentrazione che si riserva alla lettura è molto diminuita.
Scrivendo hai pensato ai tuoi lettori?
No, non ci ho pensato. Ci penso quando scrivo per la rete, per esempio, io scrivo su Nazione Indiana, e ho capito che un racconto lungo su Nazione Indian non funziona. I lettori non ti seguono. La lunghezza e la complessità della trama non mi sembrano adatta al web. Mentre, al contrario, prose brevi o addirittura poesie — anche se io di poesie non ne scrivo — funzionano molto di più, hanno più appeal. Almeno per quanto riguarda il web, quindi, devo dire che il problema del pubblico me lo pongo costantemente.
E per i romanzi?
Diciamo che per quanto riguarda la scrittura “per la carta” — e parlo soprattutto di Stati di grazia, ma anche del mio primo romanzo — il problema non me lo pongo. Cerco di restare più concentrato sul tentativo estenuante di tirar fuori una cosa bella. E sono convinto che se si lavora bene su questo aspetto, sulla ricerca del bello, allora la possibilità di coinvolgere il lettore aumenta. Però ti ripeto, mentre scrivevo non mi chiedevo cosa avrebbe potuto chiedersi il lettore durante la lettura, se ne avrebbe contestato la complessità o, al contrario, apprezzato la musicalità.
In alcuni punti del tuo romanzo usi tecniche di ripetizione che danno un ritmo, una cadenza, a volte anche con un uso della punteggiatura molto “aggressivo”. Perché questa scelta?
Ho fatto lo sforzo di raffigurare attraverso un lessico e una lingua ciascun personaggio, ciascuna storia. Poi ci sono anche delle fascinazioni che uno scrittore attraversa, qualche stratagemma o qualche tecnica di cui si innamora e che può diventare quasi un tic, a volte, come nel caso che hai appena fatto, dell’elencazione o della scrittura be-bop. Anche se io ci tengo molto a precisare che non sono tentativi solipsisti o autistici, di isolamento, ma tutto il contrario, sono esperimenti di comunicazione. Per esempio, la scrittura be-bop l’ho scelta perché secondo me era il modo migliore per rendere quelle scene al meglio.
Quali sono le tue fonti, i tuoi modelli di scrittura?
Siamo immersi in una tradizione, anche quando fai tentativi di avanguardia, sei in una tradizione. Quindi è chiaro che non mi sono inventato nulla. Per fare qualche nome, a proposito della lingua direi Consolo, D’Arrigo, paradossalmente anche Goffredo Parise — anche se della sua rarefazione effettivamente non ci sono tracce evidenti in Stati di grazia — per quanto riguarda invece la trama e la gestione dell’intreccio, mi sembra che i miei ispiratori siano piuttosto evidenti: W. G. Sebald e Danilo Kiš, che per me sono gli autori che più di tutti hanno saputo fare letteratura a partire dal dato storico.
E perché proprio l’Argentina?
Ciascuno di noi ha le sue ossessioni, una delle mie è l’Argentina. È una passione per il paese, ma anche per la vicenda politica, e tra l’altro ho intercettato vicende che riguardavano le storie che poi ho raccontato in Stati di grazia, vicende e persone che ho conosciuto, che ho incontrato, luoghi che, prima di descrivere, ho visto. Succede così con i paese e con le storie, ci si innamora e si resta legati, si diventa in qualche modo un servitore.
Che effetto credi che abbia la tendenza degli scrittori italiani contemporaneai a prendere come modelli colleghi stranieri, quasi sempre letti in traduzione italiana?
Questa dinamica certamente esiste. A partire dai lettori forti, che negli ultimi anni si sono orientati sempre di più sulla letteratura straniera, e chiaramente, se oltre che lettore sei scrittore gli effetti secondari ci sono — credo che sia capitato anche a me — e si vedono sulla pagina. Però forse non è un vizio del sistema, ma una tendenza che, se avvallata dagli editori, ha il suo motivo di esistere. Poi, personalmente la mia esperienza editoriale, fatta inizialmente di rifiuti, mi ha fatto ragionare ed evolvere sia nell’espressione linguistica che in tutto il resto. In fondo i rifiuti ti fanno lavorare su te stesso, ti spingono più in profondità, ti fanno crescere. Almeno nel mio caso.
Ci racconti brevemente la tua storia editoriale?
All’inizio, come quasi tutti, scrivevo cose non buone, questo è evidente. Le cose che scrivevo tra la fine dei miei vent’anni e l’inizio trent’anni non funzionavano, ed è stato un bene che non sia riuscito a pubblicarle. Ho avuto un cambiamento dopo i 35 anni, quando ho iniziato a scrivere cercando di scavare più in profondità, anche se questo cambiamento non è coinciso subito con la pubblicazione, per la quale ho dovuto aspettare i 40 anni.
Un’ultima domanda, cosa ne pensi del self publishing?
L’auto-pubblicazione di un esordiente — lasciamo stare i casi dei geni — medio sia un errore, perché all’esordiente servono i passaggi di verifica, punto. Sono fondamentali. Se invece parliamo di auto-pubblicazione da parte di grandi autori, ovvero, se assistessimo a una rivoluzione copernicana in cui i ruoli si ribaltassero e gli scrittori famosi decidessero di fare a meno dell’intermediazione degli editori, quello è un altro discorso, e forse le case editrici avrebbero di che preoccuparsi seriamente. Ma il self publishing dell’esordiente, quello francamente no, non credo che abbia senso e lo sconsiglio vivamente.