Nella crisi sovrana l’Italia ha speso poco e male

Nella crisi sovrana l’Italia ha speso poco e male

Negli anni della crisi sovrana l’Italia ha speso poco e male le risorse dei contribuenti. Dal 2009 al 2013 la spesa in conto capitale si è contratta del del 24%, cifra inferiore in Eurozona soltanto a Paesi come Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna, tutti destinatari di salvataggi a spese dei cittadini europei. A evidenziarlo è un report del Bruegel Institute – think tank con sede a Bruxelles fondato da Mario Monti – firmato da Francesca Barbiero e Zsolt Davras. Il confronto con America e Svizzera è impietoso: gli investimenti della prima sono saliti del 20% nello stesso lasso di tempo, del 14% quelli della seconda. Non è solo colpa dell’austerity, l’orientamento comunitario che ha visto nel consolidamento dei conti pubblici il grimaldello per disinnescare le vendite sui titoli di Stato.

In primis c’è un problema di obiettivi, ad esempio per gli investimenti. Come ha scritto Stefano Cingolaniil Fondo strategico italiano controllato dalla Cassa depositi e prestiti non ha una strategia chiara, come dimostrano le quote nel capitale di Ansaldo Energia e delle Generali (cedute a Fsi da Bankitalia una volta acquisita la supervisione sulle compagnie assicurative attraverso l’authority Ivass), eterodosse rispetto alle direttrici reti-utilities-medie imprese verso cui sembra muoversi finora il veicolo guidato da Maurizio Tamagnini.

C’è poi la questione legata ai vincoli del patto di stabilità. Il consolidato 2012 della Cassa depositi e prestiti, controllata all’80% dal Tesoro e al 20% dalle Fondazioni di origine bancaria, mostra con chiarezza che, a fronte di un aumento da 16,6 a 22,2 miliardi nelle risorse mobilitate dal 2011 al 2012, i prestiti agli enti locali sono scesi del 64% da 9 a 3 miliardi nel giro di dodici mesi. Nello specifico, i finanziamenti all’edilizia ospedaliera si sono contratti del 91%, del 70% quelli all’edilizia scolastica e universitaria, del 31% viabilità e trasporti. Il cavallo non beve perché non può farlo, pena lo sforamento del tetto del 3% al deficit fissato, a quanto pare, da un giovane economista francese. Qualcosa è cambiato nel 2013, anno in cui le risorse sono tornate a salire a quota 6 miliardi grazie all’attività di anticipazione per il pagamento dei debiti della Pa gestito per conto del ministero del Tesoro e l’operatività del Fondo “Fiv Plus” per la valorizzazione degli immobili pubblici. Per quanto sia una buona notizia, siamo comunque lontani dai livelli del 2010.

In ogni caso, negli ultimi tre anni gli investimenti fissi lordi delle amministrazioni pubbliche italiane, come si legge nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2013, sono scesi dai 32,3 miliardi del 2010 ai 29,2 del 2012, e sono previsti in diminuzione a 28,2 quest’anno e il prossimo (clicca qui e vai a pag 18). Quelli delle amministrazioni centrali sono rimasti sostanzialmente invariati a 8,2 miliardi negli ultimi tre anni. La riduzione degli investimenti delle Regioni è stata del 6,1% nel 2011 e del 7,2% nel 2012, quelli di Comuni e Province del 7,5 per cento. Negli anni più acuti della crisi, dal 2008/2009 al 2011, i tagli più sostanziosi alla spesa pubblica si sono invece concentrati nella scuola (-33%), nella cultura (-33%) e nella pubblica sicurezza (-26%).

Altro capitolo dolente, infine, sono i cofinanziamenti attraverso i fondi strutturali europei, dove l’Italia è uno dei fanalini di coda con un’incidenza inferiore al 10% rispetto al totale lordo degli investimenti, dietro a Cipro, Grecia e Romania. Il dibattito sulla golden rule, lo scorporo dal calcolo del deficit degli investimenti in condominio con Bruxelles è stato approvato lo scorso ottobre dal Parlamento europeo ma non ancora preso in considerazione dalla Commissione.  Dal canto suo, il commissario agli Affari economici Olli Rehn ha spiegato lo scorso luglio che la golden rule è applicabile a tre condizioni a) crescita economica negativa di un Paese membro b) rispetto del tetto al deficit del 3% e c) limitazione ai progetti comunitari.

Guardando ai numeri di Eurostat, sebbene la spesa pubblica italiana sia passata dal 47,9 al 50,6% del Pil dal 2005 al 2012, non è più elevata di altri Paesi europei come la Francia (passata dal 53,3% al 56,6% nel medesimo lasso di tempo) e la Spagna (dal 38,4 al 47,8%). Come nota l’economista Thomas Manfredi su Linkiesta, è la sua allocazione ad essere inefficiente: spese intermedie più alte per i servizi generali di Palazzo Chigi e nel settore della sanità si contrappongono a spese intermedie sotto la media in infrastutture e istruzione. Se la spending review del commissario Cottarelli si concentrerà sulle prime, per creare ricchezza è necessario, come sottolinea l’ultimo rapporto Ocse sulla spesa per l’istruzione nel mondo, recuperare il terreno perduto sui secondi. Intanto, come emerge da un rapporto della Corte dei Conti sui dati della Ragioneria generale dello Stato, la Pa ha tagliato gli investimenti in infrastrutture di 100 miliardi di euro dal 2008 al 2012. 

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