Obama, il Grande Gioco nel Pacifico in subbuglio

Obama, il Grande Gioco nel Pacifico in subbuglio

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha raggiunto oggi, 28 aprile, l’ultima tappa del suo tour asiatico. Dopo Giappone, Corea del Sud e Malesia, è atterrato a Manila, nelle Filippine. L’obiettivo dichiarato del viaggio tra i Paesi alleati del Pacifico è stato quello di riaffermare la presenza americana in una delle regioni chiave del mondo a fronte della crescente influenza politica ed economica cinese.

Priorità dellagenda diplomatica di Barack Obama nel Pacifico è stata la sicurezza. In seconda battuta, il progetto di un accordo di libero scambio che coinvolga tutti i Paesi che si affacciano sul bacino del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp). Washigton deve rassicurare gli alleati sul proprio ruolo di custode della stabilità dellarea, ma anche cercare nuovi partecipanti alle negoziazioni dellaccordo che potrebbe dare nuovo slancio allexport delle grandi aziende americane.

Mappa di nippon.com

La scelta di partire proprio da Giappone e Corea del Sud ne è un chiaro indizio. I due Paesi avvertono infatti costanti minacce alla propria sicurezza nazionale, soprattutto da quando la Corea del Nord ha ricominciato a febbraio dello scorso anno a minacciare attacchi. Ma hanno anche economie di consumo sviluppate e sono mercati appetibili, in particolare per grandi gruppi come Ford e General Motors che vorrebbero rompere i quasi monopoli dei colossi giapponesi e sudcoreani del settore automotive

Un accordo di libero scambio poi costituirebbe un’opportunità dorata anche per le multinazionali dell’agro-alimentare: soprattutto in Giappone – dove l’import di prodotti alimentari è sottoposto a un regime fiscale sfavorevole per garantire ai produttori locali una quota di mercato più ampia–  l’opposizione delle associazioni di settore all’entrata del Giappone nel Tpp è forte.

D’altra parte, Seul e Tokyo rimangono alleati piuttosto riluttanti. Da quando sono in carica – da più di un anno – la presidente sudcoreana Park Geun-hye e Shinzo Abe si sono incontrati solo una volta. E proprio sotto la supervisione di Barack Obama, a latere del summit internazionale per la sicurezza nucleare dell’Aja, lo scorso marzo. Sui rapporti tra i due Paesi pesano questioni storiche ancora irrisolte. Due su tutte: quella delle comfort women, le donne che durante la seconda guerra mondiale venivano rapite e costrette a prostituirsi nei bordelli militari nipponici, e della sovranità su un’isola rocciosa (Takeshima per Tokyo, Dokdo per Seul) nel braccio di mare tra la penisola coreana e l’arcipelago giapponese.

Non ci sono però solo gli attriti tra Giappone e Corea del Sud. A preoccupare Washington è soprattutto il rischio di un’escalation sulle isole Senkaku o Diaoyu, al centro di un’aspra polemica tra Giappone e Repubblica popolare cineseAl termine del colloquio con il primo ministro Shinzo Abe, Obama ha affermato che «sarebbe un grosso errore continuare a vedere aumentare la tensione sulla questione [delle isole Senkaku/Diaoyu] invece di passare al dialogo». Obama ha comunque confermato quanto già detto prima del suo arrivo a Tokyo: «essendo sotto l’amministrazione giapponese», le isole sono oggetto del Trattato di mutua cooperazione e sicurezza del 1960. In base ad esso il Giappone ha concesso l’utilizzo del territorio nazionale da parte delle forze Usa a scopi militari in cambio del loro intervento in caso di attacco

È la prima volta che Barack Obama prende posizione sulla diatriba – in precedenza parole simili erano state pronunciate dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton nel 2010.

Pechino non ha accolto di buon grado le affermazioni del presidente Usa. Già prima del suo arrivo in Asia, il ministero degli Esteri cinese, per bocca del suo portavoce Qin Gang, aveva avvertito che la Cina rifiutava l’interpretazione americana e aveva invitato Obama a «essere cauto con le parole e i fatti e impegnarsi per giocare un ruolo costruttivo nella pace della regione». 

Da quando le isole sono state acquistate dal governo giapponese a settembre 2012, navi della guardia costiera giapponese e cinese hanno iniziato a pattugliare l’area sfidandosi a distanza ma senza mai dare luogo a scontri. Anche lo spazio aereo sopra le isole rimane conteso: secondo dati resi pubblici dal governo di Tokyo, in un anno, sono stati oltre quattrocento i velivoli cinesi intercettati dall’aviazione delle Forze di autodifesa nipponiche. A novembre dello scorso anno, la tensione ha registrato un’altra impennata quando Pechino ha stabilito una zona di identificazione sullo spazio aereo sopra il tratto di mare dove si trovano le isole contese.

Mappa di ericsworld.org
 

Intanto il governo giapponese ha dato il via al primo piano di espansione delle proprie strutture militari dopo 40 anni: sull’isola di Yonaguni, ad appena 150 chilometri a sud delle Senkaku/Diaoyu, a un passo da Taiwan, sono iniziati i lavori di costruzione di una base radar pensata per rafforzare la sorveglianza nell’area. Yonaguni è solo l’ultima di una serie di mosse che indicano la volontà dell’amministrazione conservatrice di Shinzo Abe di procedere a un riarmo “soft”, nei limiti della costituzione postbellica che sancisce all’articolo 9 – fintanto che non sarà emendata – la rinuncia “eterna” alla guerra e al mantenimento di un esercito regolare

Mappa di asiapacificbase.com

Scelte seguite con apprensione anche al di fuori dei confini nazionali. Nonostante la sua popolarità in patria infatti, diverse critiche al suo operato sono arrivate dall’estero, anche dall’alleato di sempre: gli Stati Uniti. Dopo la sua visita di dicembre al santuario Yasukuni, dove sono commemorati alcuni criminali di guerra di classe A, si è fatta sentire anche Washington. «Gli Stati Uniti esprimono rammarico per la decisione dell’amministrazione giapponese di promuovere un’iniziativa che inasprirà le tensioni con i vicini del Giappone», si leggeva in un comunicato dell’ambasciata Usa a Tokyo di dicembre 2013. 

Pechino studia le sue prossime mosse mentre per bocca di alcuni funzionari definisce il primo ministro giapponese un «piantagrane» che rischia di mettere a rischio non solo le relazioni bilaterali tra le due principali economie dell’area, ma anche l’intero equilibrio politico regionale.Un segnale di apertura è comunque arrivato la scorsa settimana con l’annuncio della prima visita ufficiale in oltre 18 anni del neo-governatore di Tokyo, Yoichi Masuzoe, a Pechino. Masuzoe sarà in Cina per incontrare alcuni funzionari della capitale cinese per imparare dall’esperienza olimpica del 2008 e prepare al meglio i lavori per Tokyo 2020 proprio negli stessi giorni della visita di Obama in Giappone.
 

L’accordo firmato a Manila

Destinata a suscitare l’irritazione di Pechino è anche l’ultima visita ufficiale di Obama in Estremo oriente. Dopo Giappone, Corea del Sud e Malesia, il presidente americano si è recato lunedì 28 aprile nelle Filippine, per confrontarsi ancora una volta su questioni legate alla sicurezza nella regione.

Proprio in occasione della visita di Obama a Manila, il presidente Usa ha firmato un accordo bilaterale di cooperazione militare che garantirà alle forze della marina militare americana laccesso alle basi militari dellarcipelago filippino, a più di ventanni dal totale ritiro delle forze americane che lì erano stanziate. Una mossa che sottolinea la sempre maggiore attenzione che Washington assegna agli equilibri strategico-militari della regione. 

Ma è un accordo che comporta un duplice rischio. Da un lato questa mossa rischia di inasprire ulteriormente i rapporti tra Usa e Repubblica popolare cinese, proprio in un momento in cui, con lo scontro aperto con la Russia sulla questione ucraina, gli Stati Uniti farebbero bene a mantenere un atteggiamento di apertura verso Pechino. 

Dall’altro lato, l’accordo bilaterale Manila-Washington sull’uso delle basi militari rischia anche di minare il consenso del governo filippino. Pochi giorni prima dell’arrivo del presidente Usa, centinaia di attivisti si sono riuniti di fronte all’ambasciata americana nella capitale filippina per protestare contro la presenza militare americana, accusata di violare la sovranità territoriale filippina. 

Un rinnovato impegno statunitense nella regione è conseguenza della tensione crescente nel Mar cinese meridionale. Su un braccio di mare che va da Taiwan all’Indonesia e costeggia il Sud della Cina e il Vietnam a ovest e Filippine a est, da quasi quarant’anni i Paesi che vi si affacciano si contendono la sovranità su isole e interi tratti di mare. E non c’è da stupirsi, dato che secondo alcuni studiosi cinesi quel tratto di mare potrebbe essere il “Secondo Golfo Persico” data la sua ricchezza di risorse naturali, petrolio e gas naturale in particolare

Mappa di jumbodumbothoughts.com
 

Non solo. Qui passa infatti un terzo del commercio marittimo mondiale. Nel 2013, la Cina ha ufficializzato dei viaggi turistici all’interno di un gruppo di isole contese tra i Paesi affacciati sul bacino. E proprio con Manila c’è stato l’ultimo scontro diplomatico: dal 2012 navi militari cinesi presidiano l’atollo di Scaroborough, su cui Manila rivendica sovranità. A marzo di quest’anno la contesa è riesplosa dopo che un’imbarcazione civile filippina è stata bloccata da un vascello della marina militare cinese a 160 chilometri dalle coste del Paese-arcipelago. 

La barca avrebbe dovuto portare rifornimenti ai soldati filippini stanziati sul Second Thomas Shoal, un atollo che costituisce la porta della zona economica esclusiva sul Mar cinese meridionale rivendicata da Manila. In seguito all’incidente, il presidente filippino Benigno Aquino ha richiamato a gran voce la comunità internazionale all’allerta nei confronti dell’espansionismo cinese – che, secondo Aquino, ricordava quello della Germania nazista a fine anni ’30 – e a prendere di conseguenza le parti delle Filippine nella contesa.

La visita di Obama nella regione Asia-Pacifico arriva in un periodo in cui, secondo quanto spiegato al New York Times da Benjamin Rhodes, membro vicario del Consiglio di sicurezza Usa, «i Paesi dell’area vogliono che gli Stati Uniti siano una forza stabilizzante». Ma allo stesso tempo, «non vogliono che la tensione salga oltre un certo grado». Secondo alcuni, il risultato è una rinnovata politica del contenimento – sul lato commerciale e militare  – diretta alla Cina. Mentre quel ribilanciamento della diplomazia americana in direzione dell’Asia orientale – a pivot to Asia – tanto pubblicizzato dall’amministrazione Obama, ancora non si vede

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