Arabia Saudita, il regno di sabbia

Arabia Saudita, il regno di sabbia

Nel 2050, secondo le proiezioni del think tank Carnegie Endowment for International Peace, il Pil dell’Arabia saudita sfiorerà i 2,4 trilioni di dollari. Tallonando quello italiano, di poco inferiore ai 2,6 trilioni. Un risultato non da poco, per un Paese che oggi ha un Pil inferiore agli 800 miliardi di dollari, e neanche 30 milioni di abitanti. Nel 2050, però, i sudditi del Custode delle due sacre moschee (questo il titolo ufficiale del re saudita) dovrebbero essere quasi 50 milioni. Quasi lo stesso numero dei cittadini italiani.

Che oggi, peraltro, con i sauditi fanno buoni affari. «L’Arabia Saudita è fra i primi quindici mercati di interesse per le nostre aziende, e presenta grandi potenzialità. – spiega a Linkiesta Roberto Luongo, direttore generale dell’Ice – È un mercato che assorbe i nostri prodotti di tecnologia più avanzata, come macchinari e impianti, ma anche beni di consumo quali abbigliamento e calzature. Il Paese sta lavorando moltissimo per diversificare la propria economia, puntando per esempio sulle energie rinnovabili e sul biomedicale».

Insomma, per l’Arabia Saudita sembra prospettarsi un futuro luminoso… sempre che economisti e demografi ci azzecchino. Perché, volendo parafrasare la massima evangelica, altri elementi fanno pensare che il regno arabo sia costruito sulla sabbia. E che sia a rischio-rovina. I fattori di instabilità sono molteplici: la posizione geopolitica non proprio fortunata; un’economia fortemente trainata dal settore energetico; una popolazione giovanissima in larga parte disoccupata. C’è poi la grande incognita di chi succederà all’attuale sovrano, l’ottantanovenne Abdallah; la famiglia reale è a dir poco numerosa: sono infatti centinaia i nipoti di Abdulaziz bin Saud, fondatore del regno, e questa terza generazione di aristocratici reclama la sua fetta di potere (ed è la prova vivente che forse poligamia e maschilismo non sono la ricetta migliore per evitare faide di successione).

«Attualmente ci sono le stesse probabilità che il Paese scivoli indietro o che progredisca. – dice a Linkiesta Thomas Lippman, pluripremiato giornalista statunitense e autore di Saudi Arabia on the Edge: The Uncertain Future of an American Ally – Non c’è modo di prevedere come sarà il Paese fra dieci o vent’anni. Riyad pare voler basare il suo futuro sullo sviluppo dell’istruzione e dell’industria. Tuttavia lo sviluppo del Paese è ostacolato dalla burocrazia, dall’eccessiva centralizzazione, dallo spreco del talento femminile, dalle scarse competenze manageriali e dal peso dell’Islam wahabita, che continua a danneggiare il sistema educativo».

Nel regno più conservatore del mondo la temperatura non è l’unica cosa soffocante. Anche il tradizionalismo religioso e culturale gioca la sua parte. D’altra parte perché cambiare, quando le immense ricchezze del sottosuolo tengono in piedi l’economia? Secondo lEnergy Information Administration americano, tra il gennaio e il giugno del 2013 Riyad ha incassato 142 miliardi di dollari esportando petrolio. Se si aggiunge che il regno ha circa un quinto delle riserve provate di oro nero a livello mondiale, che è il principale produttore ed esportatore planetario, e che vanta pure gigantesche riserve di gas naturale, una cosa diventa chiara: scalzare la leadership energetica dei sauditi è difficile. Difficile, ma non impossibile.

Ecco perché il boom degli idrocarburi non-convenzionali entusiasma poco Riyad. Specie considerando che uno dei protagonisti di questa nuova partita sono gli Stati Uniti, suo grande cliente. A detta dell’International Energy Agency, grazie alla produzione di petrolio di scisto gli americani potrebbero presto diventare il primo produttore mondiale di oro nero, a scapito delle due superpotenze energetiche Arabia Saudita e Russia. C’è poi l’aumento delle esportazioni petrolifere dell’Iran, storico nemico dei sauditi (fu proprio re Abdallah, nel 2008, a esortare Washington a “tagliare la testa del serpente” iraniano). Insomma, per i sauditi sembra essere arrivato il momento di darsi una svegliata.

La rivalità tra Arabia Saudita e Iran

«C’è un’enorme tensione fra Arabia Saudita e Iran in questo momento, e non solo fra i rispettivi establishment, ma anche fra le due popolazioni. – dichiara a Linkiesta Andrew Cooper, autore di The Oil Kings: How the US, Iran and Saudi Arabia Changed the Balance of Power in the Middle East – I due Paesi rivaleggiano per l’influenza regionale e la produzione di petrolio. L’Iran è l’unico Paese sciita, mentre l’Arabia Saudita è la maggiore potenza del mondo sunnita: gli interessi nazionali sono intrecciati alla fede».

Le due nazioni sono invischiate in una guerra che è fredda nel Golfo, ma caldissima in Siria. Come è noto, Bashar Al Assad è appoggiato da Teheran, mentre Riyad sostiene gruppi di guerriglieri estremisti. Costoro vengono da molto Paesi diversi, inclusa la stessa Arabia Saudita, dove prima o poi potrebbero tornare. E magari far saltare qualche bomba, come ha fatto in passato l’Al Qaeda di Osama bin Laden.

La Syrian policy saudita è tanto rischiosa quanto fallimentare: finora i gruppi di estremisti sponsorizzati a suon di petrodollari non hanno davvero danneggiato il regime di Al Assad, ma anzi hanno delegittimato gli sforzi degli oppositori laici o moderati. E proprio il fiasco di una strategia che negli anni Ottanta aveva funzionato così bene in Afghanistan sarebbe il motivo della rimozione, pochi giorni fa, del principe Bandar bin Sultan da direttore generale dell’agenzia di intelligence saudita. Il principe avrebbe anche usato un tono provocatorio nei confronti degli alleati americani in merito alla guerra in Siria, e nemmeno questo deve aver fatto piacere a re Abdallah. Che assiste con ansia al lento riavvicinamento fra Washington e Teheran.

«La disinvoltura con la quale alcuni americani e iraniani hanno abbracciato il concetto di riconciliazione, – rileva Cooper – e la segretezza dei negoziati tra i due Paesi, hanno scosso e agitato i sauditi. Perché quando gli Stati Uniti e l’Iran erano nemici, loro potevano agire impunemente sotto molti aspetti. Ad esempio non hanno mai davvero dovuto contrastare gli estremisti sauditi, che sono fortemente antiamericani».

In effetti l’Arabia Saudita è uscita illesa dalla guerra al terrorismo scatenata da George W. Bush dopo l’11 settembre. E questo benché la maggior parte dei responsabili degli attentati fossero proprio sudditi sauditi. «L’obiettivo personale di bin Laden era distruggere la casa dei Saud, – sottolinea a Linkiesta Robert Lacey, autore di Inside the Kingdom, un libro bandito in Arabia Saudita – per impedirle di modernizzare e occidentalizzare il regno».

Modernizzazione e occidentalizzazione assai limitate, peraltro. La monarchia ha estremo bisogno delle autorità religiose per assicurare la propria esistenza. «Quello che garantisce il potere dei Saud sono i petrodollari e la capacità del governo centrale di distribuirli ai gruppi di interesse, e soprattutto alle autorità religiose. – nota Lacey – Da parte loro i religiosi aiutano a blindare il potere della famiglia reale, ma bloccano anche qualunque tentativo di modernizzare il Paese».

Benché Riyad tenga moltissimo al suo rapporto con gli Stati Uniti, è tutto tranne che una democrazia. Al confronto il Marocco o la Giordania sembrano campioni di liberalismo. In Arabia Saudita non c’è spazio per i partiti politici, men che meno per i Fratelli Musulmani, movimento abbastanza forte da vincere le prime (e, ancora per molto tempo, probabilmente le uniche) elezioni democratiche nel vicino Egitto, dopo la caduta di Hosni Mubarak. Non a caso il mese scorso le autorità saudite hanno messo al bando la Fratellanza. E, imitate dagli alleati Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, hanno richiamato in patria il loro ambasciatore in Qatar: il piccolo emirato è infatti colpevole di sostenere quell’organizzazione terroristica che sono i Fratelli Musulmani, e di ospitare “media ostili”, cioè la rete televisiva pan-araba Al Jazeera (tale è la pericolosità del Qatar che Riyad ha chiuso pure le frontiere e lo spazio aereo).

Disoccupazione giovanile

Ma anziché prendersela con un Paese di neanche due milioni di abitanti, i sauditi farebbero meglio a guardare in casa propria. Il vero nemico della loro sicurezza, forse, è il quasi 30% di disoccupazione giovanile. In fondo le varie rivoluzioni della Primavera Araba sono state scatenate proprio da giovani disoccupati; e in Arabia Saudita l’età media è di 26 anni. Certo, l’ottimo welfare e un Pil pro capite di oltre 31mila dollari (a parità di potere d’acquisto) sono elementi che favoriscono la stabilità interna. Presto però potrebbero non bastare. Anche se è vero che i soldi fanno sempre e comunque la differenza, come spiega a Linkiesta Caryle Murphy, vincitrice del premio Pulitzer e autrice del libro A Kingdom’s Future: Saudi Arabia Through the Eyes of Its Twentysomethings.

«La Primavera Araba aveva entusiasmato molti giovani sauditi, che però sono rimasti delusi dai conflitti e dallo scompiglio che ha provocato nei vari Paesi. – racconta Murphy, tornata di recente negli Usa dopo aver trascorso tre anni nel regno – La maggior parte dei giovani sauditi vuole che la monarchia rimanga, e solo alcuni vorrebero che diventasse una monarchia costituzionale. In generale le nuove generazioni desiderano un’evoluzione più che una rivoluzione».

La stessa cosa sembrerebbe valere per il tradizionalismo religioso che grava sul Paese. «I giovani sauditi sono per lo più musulmani osservanti, prendono l’Islam molto seriamente, lo sentono come una parte della loro identità personale e nazionale. – dice Murphy – Però molti preferirebbero che la religione fosse meno regolata dallo Stato e dall’establishment religioso ufficiale, e che fosse una questione più personale».

Donne

Anche l’afflato rivoluzionario delle donne è pari a zero. Nonostante i pesantissimi limiti imposti alla loro libertà (quasi inesistente nel regno wahabita), le saudite non incolpano di ciò l’Islam. Se la prendono, piuttosto, con le usanze tribali e la mentalità arcaica. «Per secoli la religione è stata utilizzata per mascherare la tradizione. – dice Murphy – Il fatto che i genitori scelgano il marito delle loro figlie, ad esempio, non è una norma islamica, ma un’usanza tribale. Ecco perché molte giovani saudite vorrebbero una maggiore separazione fra Islam e tradizione nel loro Paese».

Peraltro, se il divieto di guidare è la più nota tra le discriminazioni a cui sono sottoposte le saudite, non è certo l’unica. Per la maggioranza delle ragazze sono i genitori a scegliere il marito (spesso un cugino) o comunque a doverlo approvare. E anche se i divorzi stanno aumentando, nemmeno quella è una strada facile. «Spesso sono le donne a chiedere il divorzio, – osserva Murphy – ma è difficile che lo ottengano. Molti mariti rendono il processo ancora più complicato, ad esempio minacciando di togliere alle mogli la custodia dei figli o rifiutandosi di consegnare loro i documenti che dimostrano che sono divorziate». E quest’ultimo è un bel problema in un Paese dove per una donna è impossibile, fra le altre cose, aprire un conto corrente senza la firma di un maschio “guardiano” (di solito il padre, il fratello o il marito).

Ma anche le saudite sembrano sperare in un’evoluzione piuttosto che in una rivoluzione. «Solo una minoranza di donne partecipa alla campagna contro il divieto di guidare. – nota Murphy – Molte discutono le norme sociali in privato, con le loro famiglie. Non c’è un vero e proprio movimento nazionale delle donne per ribellarsi alle regole che le limitano».

Tra l’altro, se la disoccupazione giovanile colpisce circa il 20% dei ragazzi, il dato tocca il 54% fra le ragazze. Una percentuale che non fa ben sperare sull’indipendenza economica delle donne, ingrediente fondamentale per le rivendicazioni dei propri diritti. Ma pare che Riyad si stia sforzando di migliorare la situazione sostenendo il settore privato. Sia per diversificare la propria economia (il petrolio rappresenta l’80% delle entrate del Paese e il 90% dell’export), sia per aumentare le possibilità di impiego per i giovani sauditi. Con una mossa che la dice lunga, Riyad ha poi introdotto sanzioni per le società che impiegano stranieri e incentivi per chi, invece, dà lavoro ai sauditi.

La dipendenza dal greggio

Telecomunicazioni, sviluppo del settore del gas naturale, petrolchimica e rinnovabili. Ecco i compartimenti sui quali Riyad sta puntando per affrancarsi dalla tirannia del greggio. Che potrebbe finire prima del previsto, del resto: secondo alcune stime (da prendere però con le molle), il regno potrebbe addirittura arrivare a dover importare petrolio nel 2027.

Il successore del re Abdallah avrà qualche gatta da pelare, dunque. Gli serviranno coraggio, e tanta energia. Qualità insolite nella gerontocratica aristocrazia saudita. Ma forse qualcosa sta cambiando anche qui. A marzo il re ha annunciato la nomina del principe Muqrin bin Abdulaziz come suo vice-successore, a fianco del precedentemente nominato Salman (79 anni). In poche parole, nel caso in cui Salman dovesse morire prima dell’attuale monarca, il successore sarebbe Muqrin. Più giovane di una decina d’anni, secondo voci di palazzo sarebbe figlio di una madre yemenita: una “tara” che per anni aveva reso improbabile una sua candidatura al trono più importante del Medio Oriente.

Ma meglio un re mezzosangue che uno affetto da Alzheimer (Salman sarebbe infatti afflitto da questa malattia). Inoltre Muqrin, ex pilota dell’aviazione militare, gode della fama di cauto riformatore, mentre Salman è considerato il principe più vicino ai conservatori religiosi. Una cosa è certa, comunque: dopo questa nomina è probabile che l’orda di principi della terza generazione dovrà pazientare ancora prima di arrivare al potere. Soprattutto in Arabia Saudita, dove la corona non passa di padre in figlio, ma di fratello in fratello. Non è un Paese per giovani, il regno dei Saud.

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