Gomorra: “Ehi Hbo, abbiamo una serie!”

Gomorra: “Ehi Hbo, abbiamo una serie!”

Rileggere Gomorra di primo mattino è un po’ come alzarsi e picchiare il giornalismo d’inchiesta con un tubo Innocenti finché non sanguina la sua anima spezzata dal colon. Frase che fa schifo ma è l’effetto collaterale del rientrare in contatto nel 2014 con preziosi passaggi del best seller di Saviano come «un ano di mare che si allarga con grande dolore di sfinteri» che poi sarebbe il porto di Napoli, detto poco più avanti anche «un’appendice infetta mai degenerata in peritonite». Anni dopo, le pagine di Gomorra continuano a grondare metafore “sangue e merda” nel tentativo di fare sembrare il libro un reportage americano ma generando un effetto più simile a un’edizione cartacea di Lucignolo.

Così temevo il peggio mentre il treno sfrecciava verso Roma, direzione premiere di Gomorra la serie, e ripassavo il ritmo spezzato simil-Ellroy ma privo di ogni traccia di ironia della prosa di Saviano e i tanti momenti in prima persona poco credibili dentro il libro che ha venduto più di 10 milioni di copie e generato una nuova divinità laica per una parte di elettorato italiano e gli autori di Fabio Fazio.

Al di là dello stile difficilmente digeribile e delle esagerazioni assolutistiche tipiche di qualsiasi argomento Saviano si occupi («Non c’è stupefacente che venga introdotto in Europa che non passi prima dalla piazza di Secondigliano», sì, vabbè Roberto), Gomorra aveva anche avuto due meriti: parlare di una realtà che in pochi conoscevano e portare avanti la tesi, fino ad allora relegata ad aree movimentiste, che tutto sommato la grande criminalità organizzata non sia altro che capitalismo armato, feroce e più efficiente.

Contavo per ciò su questi due pregi, che offrivano ampio materiale narrativo, e nella fiducia nell’unico canale italiano che aveva osato trasmettere una serie con dei PERSONAGGI CATTIVI (Romanzo Criminale), ma nella vita non si sa mai. Metti che a un certo punto un cinese nella serie si fosse messo a parlare una lingua «sparata fuori dai denti come una mitraglietta» o che nella trama tutto fosse sembrato «chiaro, ovvio, suturato alla pelle del quotidiano». Erano rischi non da poco. Tuttavia per la gioia della mia vicina di sedile che non ce la faceva più a sentirmi mugugnare dolore ogni volta che incappavo nelle metafore pulp-Novella duemila di Saviano, la stazione Termini era ormai alle porte.

Il dubbio è durato giusto i primi dieci minuti della proiezione del pilota. Tutto quello che ricordo dopo è grossomodo un gigantesco “dammene ancora”.

Il fatto è che Gomorra la serie è talmente bella che nel panorama televisivo italiano non può che essere definita un alieno. Riformulo: se questa serie l’avesse prodotta Hbo probabilmente non parlereste d’altro per i prossimi dieci anni, chiamereste vostro figlio “Scampia”, infilereste la parola Sollima nelle vostre conversazioni per darvi un tono come adesso fate con Vince Gilligan, e nutrireste il vostro cane con eroina e scarpe Cesare Paciotti.

Attualmente pressoché chiunque sotto i 104 anni e non iscritto all’Udc tende a considerare Romanzo Criminale la migliore serie italiana. Il che è vero soprattutto per lo shock culturale di non assistere ad uno show con intenti pedagogici nei confronti dell’audience e perché come ha scritto Laura Tonini su Vice «è sempre bello vedere qualcuno in televisione che smascella furiosamente senza però doverlo nascondere alle casalinghe che seguono da casa». Ben girata e molto curata nelle ricostruzioni, Romanzo Criminale non era (bestemmia alert) però priva di alcuni difetti: la recitazione impostata sulla modalità unica “aò piamose Roma”- “Aò Daje” e la scrittura spesso poco profonda dei personaggi che a un occhio esperto in certi momenti assomigliava a un nonno Libero con il mitra e la cocaina.

I primi due episodi di Gomorra mostrati alla première rappresentano un prodotto molto più avanzato, curato, ottimamente recitato (con l’inspiegabile esclusione degli sbirri che dicono «scenda dalla macchina») e soprattutto scritto, oltre che girato come le migliori serie americane, pur mantenendo una sua forte identità italiana. In altri termini non si tratta di un’americanata, ma di una fusione fra il realismo ormai dato per perso del nostro cinema di un tempo con il linguaggio dei capolavori seriali di Hbo, Showtime, Abc, Fx.

Tutto nella serie di Gomorra, dalle location, alla colonna sonora fino alla fotografia, è curato come e forse più che in un grande film lungo 12 puntate. Il linguaggio è un napoletano semplificato, ridoppiato nei suoi passaggi più ostici e il risultato è comprensibile ma ancora ben lontano dall’italiano ufficiale, a ulteriore garanzia di verità. La serie è stata girata in 216 giorni sulla base di una sceneggiatura la cui stesura ha preso ancora più tempo ed è stata scritta da Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Giovanni Bianconi e coordinata da Stefano Sollima con il supporto dello stesso Saviano. Uno script in grado di mettere, come diceva Gadda, tensione tragica e ragioni profonde dietro “gli ettogrammi di piombo” che come si intuisce anche dal trailer pubblico, qui abbondano.

 https://www.youtube.com/embed/FsMnW43n3AI/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Quello che il trailer non permette di capire è che Gomorra la serie usa il genere per scrivere un dramma che assume le dimensioni più ampie di una tragedia sociale e individuale. Un tipo di realismo assoluto e meticoloso in grado di spazzare via ogni discorso sui rischi di emulazione giovanile che sempre questo Paese, privo di problemi per il suo essere feroce ma con molte resistenze verso il prenderne coscienza, riserva ad ogni forma di arte che tenda al realismo.

Insomma, senza entrare nello spoiler, per quello che si è visto nelle prime due puntate, i camorristi girano con il Suv e sono i capi incontrastati del territorio, ma fanno una vita che in pochi vorrebbero fare. Il realismo radicale e le scelte narrative accurate di Gomorra la serie inchiodano lo spettatore alla sedia e lo colpiscono nel profondo molto più delle metafore ad alto tentativo di adrenalina del libro. Come tutte le grandi opere, non ti lascia indifferente, non è sorbibile senza scosse come il pastone televisivo medio. Al termine della proiezione il pubblico di giornalisti provenienti da tutto il mondo è rimasto per qualche istante in silenzio, come oppresso dal finale in crescendo della seconda puntata. Poi fra le poltroncine ho sentito una giornalista italiana di mezz’età borbottare «saremo anche democristiani ma questi si sono fatti prendere un po’ la mano». Ovviamente io godevo come un riccio. In probabile collegamento telepatico con il giornalista italiano medio, un rappresentante di Sky si è quasi sentito subito in dovere di giustificarsi spiegando che la serie è stata già venduta in 40 Paesi. La strategia che di solito si usa per far passare qualcosa di innovativo anche alle nostre latitudini “ehi all’estero è piaciuto!”.

Non vi preoccupate, è piaciuto anche qui.

Molto.

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