Le verità incrinate dietro la verità giudiziaria

Le verità incrinate dietro la verità giudiziaria

È difficile arrivare alla verità e alla giustizia. Sono dee tormentate dal diavolo che si annida in ognuno di noi, dal nostro gioire alla ricerca di un assassino, anche con l’espediente di tenere assieme le tessere più incongruenti dell’animo umano. Alla verità e alla giustizia dunque ci si può solo avvicinare, aiutati da qualche lettura che scacci il demonio. Letture esorciste, verrebbe da dire.

È il caso di due libri congiuntisi in lettura per qualche accidente e alla fine della lettura si fa fatica a non ripensarli appaiati: La panne – Una storia ancora possibile di Friedrich Dürrenmatt, ripubblicato di recente da Adelphi, e La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, edito da Laterza. Il primo è un delizioso racconto breve, con finale sorprendente del genere letterario sul processo; il secondo è una coraggiosa panoramica storico-tecnica sul processo trasformato in genere letterario.

La lettura di La panne val bene una sosta nel ripensamento, in particolare per uomini di legge e cronisti di giudiziaria. Racconta la storia di un commerciante di tessuti ospitato dopo un guasto alla macchina, una panne, a casa di un vecchio giudice in pensione. L’anziano magistrato, assieme ad altri tre amici pensionati, un pubblico ministero, un avvocato e un oste, all’occorrenza boia, trascorre serate conviviali gustando cibi prelibati e vini d’annata, e inscenando i grandi processi della storia. Socrate, Gesù, Giovanna d’Arco, Dreyfus e l’incendio del Reichstag. Una volta avevano perfino dichiarato incapace di intendere e di volere Federico II di Prussia, che per la reputazione di monarca illuminato fu detto il Grande, cioè intendente e volitivo per fama.

Intorno al tavolo, imbandito e con gli anziani giuristi avvolti in ampie finanziere di gran qualità, si svolgono memorabili e divertenti serate, a dispetto di quanto Alfredo Traps, il commerciante in panne, si sarebbe potuto aspettare a giudicare dai titoli uggiosi della biblioteca di casa.

Anche la sera dell’arrivo di Traps è in programma il convivio. A lui è offerto il posto in commedia solitamente libero: l’imputato. Traps accetta onorato e allo stesso tempo incuriosito sul titolo di reato che gli avrebbero contestato. Ma questo è un punto di scarsa importanza, a dire del pubblico ministero, perché un reato si finisce sempre per trovarlo.

Di solito è l’indagine il luogo per provare il delitto. L’interrogatorio di Traps è invece l’occasione per costituirlo. Fatte le debite distinzioni tra fantasia e realtà, il metodo suggerisce qualche sommaria riflessione d’attualità: sul carattere «così terribile» del potere dei magistrati, perché «impiegano per sostenerlo ed esercitarlo l’arma più rispettabile, la legge», detto con Montesquieu e Condorcet; sulla buona maniera del ragionevole dubbio che orienti l’unico pregiudizio ammissibile nel doloroso lavoro del giudicare, cioè la relatività e l’incertezza della verità; sulla sobrietà e riservatezza di condotta dei magistrati, da esigersi nel rifiuto di parlare in qualunque modo dei processi.

In La panne ogni regola sul giudicare è retrocessa in cavillo, «noi giudichiamo senza badare alla meschinità di codici e paragrafi» e la sobrietà e riservatezza è violata con l’allegoria della sentenza pronunciata dal padrone di casa arrampicato sul pianoforte a coda posto nell’angolo della stanza, fra «le sghignazzate generali, le grida, l’esultanza».

È amaro il commento del signor Kumen, l’avvocato. «Fatti assolutamente indipendenti erano stati collegati fra di loro, si era voluto contrabbandare nel tutto un disegno logico, eventi fortuiti erano stati presentati come cause di azioni che avrebbero potuto avere benissimo un decorso diverso, nel puro caso si era voluta vedere l’intenzione, nella sventatezza il proposito deliberato, sicché alla fine dell’interrogatorio era necessariamente saltato fuori un assassino, così come dal cilindro del mago salta fuori il coniglio».

Il guaio è che Alfredo Traps finisce per credersi davvero colpevole.

Bada invece ai codici, cavilli e sguardi storici, il saggio di Fiandaca e Lupo. Si tratta di un salutare “cavillare”. In controtendenza rispetto ad un giudizio etico-moraleche pretende dal diritto penale un atteggiamento orientato «in qualche misura a giustizia di emozioni sotto la prevalente angolazione della opinione pubblica e/o delle vittime stesse». Del “politicamente” corretto.

Fiandaca e Lupo, accordando le partiture del giurista e dello storico, conciano il pelo al politicamente corretto, in un tempo in cui i “lisciatori” di quello stesso pelo sono di gran lunga più numerosi. Senza alcuna indulgenza, naturalmente, nei confronti della mafia, ed incoraggiandone la lotta.

Il processo posto sotto osservazione dagli studiosi palermitani è quello sulla così detta “trattativa Stato-mafia”. Sembra un processo trasformato in genere letterario perché si fonda su «un previo giudizio di forte disapprovazione, politica e morale, dell’idea stessa di trattativa che fa da retroterra all’indagine giudiziaria». Il che non può essere mai il punto di partenza per un procedimento punitivo, perché esso è in una norma penale che astrattamente sanzioni una condotta preventivamente determinata. È questione di legalità, che non vale solo per il divieto di passare col rosso.

Sostiene Lupo che solo nella “statolatria”, come avrebbe detto Sciascia parlando dell’affaire Moro, il governo non ha il diritto politico di “trattare” per difendere la sicurezza dello Stato e dei cittadini. Il “trattare”, concetto che contiene una parola già di per sé polisemica e di difficile interpretazione storico-fattuale, è invece esercizio pieno di funzione politica difficilmente sindacabile dalla “finestra stretta” del processo penale. E ciò soprattutto quando il reato contestato — avverte Fiandaca — è un espediente giuridico (concorso in violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato) utilizzato per finalità di inquisizione generale, incompatibili con i principi del processo penale.

A meno che non si voglia avallare la giustizia emotiva, proveniente da una strana forma di oclocrazia, potere della massa, che amministra la lotta alla mafia solo attraverso l’istituzione giudiziaria, stigmatizzando «come interferenza illecita o inopportuna ogni intervento autonomo di altri poteri istituzionali».

Io so è il titolo di un libro che scrisse il magistrato più impegnato nel processo “trattativa”, Antonio Ingroia, durante lo svolgimento dell’istruttoria. Con il saggio di Fiandaca e Lupo in tanti potremo sapere che c’è un’altra lettura dei fatti che può e deve essere considerata.

E allora un altro avvocato, Kumen, difensore del commerciante in panne del racconto di Dürrenmatt, potrà arringare con la stessa amarezza e con le parole di Fiandaca: «la tentazione di ridurre il processo a strumento di conferma di presunte verità di altra matrice può comportare un’arroganza intellettuale che disdegna il confronto con l’“immane concretezza”della realtà, con la contradditorietà e la frammentarietà dei fatti, con la frequente casualità degli accadimenti e la loro irriducibile resistenza a trovare spiegazione in grandi regie o disegni predeterminati».

Questa arringa esige sentenze diverse rispetto a quella che fu emessa per Alfredo Traps, e prima ancora che i tanti Traps non si convincano che «non vi è nulla di più alto, di più nobile, di più grande del momento in cui un uomo viene condannato».

Come accade nel film The Reader: «ho scritto io il rapporto», dichiara l’imputata analfabeta, impersonata da Kate Winslet, fornendo alla corte la prova regina della sua colpevolezza. Falso atto auto-confessorio, ma ricolmo di dignità e sollievo. La confessione compie e palesa in pienezza la tragedia dell’uomo, per poi fargli assumere una nuova forma di limpidezza e candore.

Fatti emotivi, stufe per l’anima. Poco pertinenti coi processi, però.

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