Stipendi Pa: leghiamoli agli investimenti, non al Pil

Stipendi Pa: leghiamoli agli investimenti, non al Pil

Nelle intenzioni del Governo, la riforma della pubblica amministrazione dovrà riguardare, tra le altre cose, il meccanismo con cui viene determinata la componente variabile della retribuzione dei funzionari pubblici. Dal momento che il risultato dell’azione di governo dipende dal modo e dalla tempestività con cui l’amministrazione pubblica la traduce in atti concreti, il presidente del Consiglio suggerisce di utilizzare la crescita del Pil come parametro per determinare il bonus dei super-burocrati. Personalmente, suggerirei un’altra variabile, gli investimenti diretti esteri.

Tralasciamo i dettagli tecnici di come debba essere strutturato un sistema di bonus basato su variabili macro (ad esempio, nel caso del Pil, quale valore soglia si usa per il tasso di crescita? Il superamento della soglia genera un meccanismo binario o continuo nell’erogazione del bonus? Quale livello della dirigenza viene interessato da questo meccanismo e in che misura?) e concentriamoci sul punto centrale.

Un parametro come il Pil può essere utile a fini di equità sociale, ma non soddisfa altri requisiti che un sistema di remunerazione variabile dovrebbe avere. Il bonus deve, infatti, essere legato a variabili su cui il manager può influire. Il tasso di crescita del Pil è una variabile impossibile da controllare: dipende dal ciclo economico internazionale, dalla politica monetaria della Bce, insomma una lotteria. L’aleatorietà con cui si determina il bonus, basandolo su una variabile incontrollabile come il Pil, soddisfa il principio di equità sociale (negli anni di magra gli alti funzionari non continuerebbero a percepire somme importanti) ma elimina l’incentivo all’impegno da parte dei manager.

Bisogna allora utilizzare solo variabili micro, legate allattività specifica della direzione o degli uffici diretti dall’alto funzionario? Sappiamo che è facile cucirsi addosso obiettivi raggiungibili e difficilmente quantificabili. Succede spesso anche nelle aziende private, dove fatta eccezione per le funzioni facilmente misurabili (come quelle commerciali o di investimento), i manager si fanno valutare sul numero di progetti conclusi (indipendentemente dalla profittabilità o utilità degli stessi) o su variabili imponderabili o facilmente manipolabili come il team working, l’apprezzamento da parte dei propri sottoposti, il rispetto del budget di costi, e così via.

Una alternativa “macro” c’è, ed è rappresentata dalla attrattività dell’Italia per gli investimenti diretti esteri (Fdi, Foreign Direct Investments), cioè gli investimenti “reali” (impianti, fabbriche, centri di ricerca, …) effettuati da soggetti “stranieri”, tipicamente le multinazionali. La variabile è facilmente misurabile e dipende (in parte) dall’azione di governo e (moltissimo) dal modo in cui la burocrazia la interpreta e traduce in pratica.

E&Y ha pubblicato il 27 maggio 2014 il suo report annuale sui Foreign Direct Investments (Fdi). Il 2013 è stato un anno record per l’Europa: i Fdi che hanno generato 166 mila posti di lavoro nei Paesi che hanno saputo attrarli. I Paesi europei più attraenti sono stati Germania, Regno Unito, Spagna, Irlanda e Francia. L’Italia non compare nemmeno nella classifica resa pubblica da E&Y. Eppure, l’attrattività dell’Europa sta aumentando e oggi rappresenta, dopo l’Asia e prima dell’America Latina, l’area più “interessante” per le multinazionali. Per un Paese che come l’Italia si trova con un tasso di disoccupazione a doppia cifra e che ha bisogno di forme di impiego di qualità, perdere anche questo treno sarebbe un errore imperdonabile.

Scorrendo il rapporto di E&Y vengono riportate le motivazioni che spingono le multinazionali a favorire un determinato Paese e a stare alla larga da un altro. Al primo posto, come era facile immaginarsi, c’è la stabilità e la trasparenza del sistema politico, legale e regolamentare. Qui, c’è il cuore delle riforme annunciate dal governo Renzi: la riforma della legge elettorale, le riforme costituzionali e la riforma della pubblica amministrazione. Manca la riforma della giustizia, ma dovrebbe essere in rampa di lancio (la promessa del premier era per maggio-giugno, quindi ci siamo).

Poi ci sono le infrastrutture e i trasporti ed anche qui, sulla ripresa degli investimenti e sull’utilizzo dei fondi europei, c’è una parte importante del programma economico del Governo. Interessante notare che la flessibilità del mercato del lavoro non è considerata ai primi posti. Molto più rilevante per il tipo di investimenti che le multinazionali fanno è la qualità dei lavoratori, il poter accedere a un “pool di talenti”. Anche la variabile fiscale non è ai primi posti (ma qui è possibile che ci sia un grado di reticenza elevato da parte delle aziende Usa che hanno scelto Irlanda e Regno Unito, viste le polemiche che stanno infuocando il dibattito politico oltreoceano). Legare le remunerazioni nella nostra pubblica amministrazione alla capacità di attrarre investimenti dall’estero sarebbe il modo migliore per segnalare che il governo fa sul serio su questo fronte.