Prima di tutto un breve disclaimer: conosco Gabriele Del Grande e il suo prezioso lavoro al blog Fortress Europe da circa 4 anni, condivido con lui molte delle idee che guidano il suo lavoro e, in qualche modo, per quanto ci si possa ritenere amici dopo aver accumulato diverse ore di chiacchiere spalmate in qualche anno, lo considero tale. Dico questo per onestà, perché anche se sono assolutamente certo che l’amicizia che mi lega a Gabriele non influirà su quel che scriverò su Io sto con la sposa — il progetto al quale sta lavorando insieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry — non posso dire lo stesso rispetto a quel che penso sul tema che questo progetto affronta. Bene, ora che lo sapete possiamo cominciare, se non vi sta bene, fermatevi qui.
Ora, partiamo dall’inizio, perché Io sto con la sposa non è affatto un documentario qualsiasi. O meglio, non solo. È qualcosa di più grosso. Per cominciare è un progetto di crowdfunding lanciato sulla piattaforma Indiegogo , che ha coinvolto finora quasi duemila persone sulla rete e che ha raccolto in circa un mese di campagna più di 65mila euro, ovvero più dell’80 per cento del totale richiesto, 75mila. Cifre da capogiro per un documentario, figuriamoci per un documentario italiano. Nessuno progetto autoprodotto di questo tipo, prima di loro, aveva provato ad alzare così tanto l’asticella.
E ancora, Io sto con la sposa è anche un’azione politica, un atto di disobbedienza che ha portato i tre autori a rischiare personalmente fino a 15 anni di carcere e fino a 25mila euro di multa a testa e che ha come scopo riportare nel dibattito civile un tema relegato senza motivo nel cassetto dei discorsi-da-non-fare: la libertà di circolazione come diritto fondamentale dell’uomo.
Non abbiamo ancora finito, perché Io sto con la sposa è un anche il claim di una campagna di sensibilizzazione via social network che ha coinvolto diverse migliaia di persone, che da diverse parti del mondo, sia mediorientale che occidentale, hanno aderito al progetto anche solo con un selfie, permettendo al progetto di fare il giro del mondo.
Ci siamo quasi, eccoci al punto finale: Io sto con la sposa è il racconto di una bella avventura, la storia del viaggio di una sposa, di una carovana nuziale che ha unito due culture del Mediterraneo — quella italiana e quella siriana, quanto meno — e che, con la forza carnevalesca della beffa ha portato cinque persone che fuggivano dalla guerra civile siriana ad attraversare dei confini che esistono solo per loro, quelli interni all’Europa, fino alla loro meta: la Svezia, e l’asilo politico.
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«Uno dei motivi che ci hanno fatto appassionare a questo progetto», iniziano a raccontarmi i tre nel loro studio improvvisato in uno spazio di coworking nel quartiere Isola, a Milano, «è proprio l’occasione che avevamo di cambiare il linguaggio con il quale fino ad oggi si è parlato di immigrazione, soprattutto nei documentari. Di solito il meccanismo narrativo si basa sullo schema “Giornalista Occidentale intervista Povero Migrante Disperato”. In questo caso invece volevamo fare qualcosa di completamente diverso e ci siamo riusciti anche perché abbiamo fuso i due mondi e i due punti di vista: il nostro — quello occidentale — e quello dei migranti, in questo caso di profughi palestinesi e siriani. E il risultato è stato notevole »
Come è stato lavorare insieme su questo progetto?
Siamo tre persone che vengono da esperienze diverse e che hanno competenze diverse: Gabriele è un giornalista, è stato in guerra, è un grande esperto di migrazione; Khaled è un poeta, ma soprattutto è un palestinese siriano ed è un punto di vista essenziale per noi, io (Antonio ndr) invece mi occupo di regia cinematografica e televisiva, lavoro nel campo dell’audiovisivo. Lavorando a questo progetto abbiamo fatto convergere tutte queste competenze consultandoci e confrontandoci continuamente, fondendoci, in qualche modo, ed è stato un valore aggiunto per il progetto.
In che cosa il vostro documentario è diverso dagli altri?
Noi raccontiamo una storia, con un respiro se vuoi anche poetico, siamo stati ben lontani dal solito tono di denuncia, abbiamo voluto fare un’altra cosa. Per la prima volta si gioisce e ci si dispera tutti insieme, stranieri e italiani, legati dal viaggio, dall’avventura. Il gruppo che si è formato alla fine del viaggio era veramente un gruppo di amici, senza distinzioni di nazionalità o di religione. Un esempio sopra tutti: c’è stato un episodio, in una delle ultime tappe del viaggio — eravamo in Danimarca — in cui per esigenze logistiche avremmo dovuto separarci per dormire, ma nessuno voleva, tanto che alla fine ci siamo stretti e siamo stati tutti insieme. Rischiavamo tutti, loro di essere fermati e di perdere il sogno della Svezia, noi fino a 15 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Cosa vuol dire cambiare linguaggio?
Cambiare linguaggio vuol dire guardare negli occhi un migrante e vederci una persona, condividere con lui delle speranze, delle esperienze, delle paure. Non solo togliere la retorica pietista del migrante sfortunato, poveretto e straccione, ma addirittura non mettere nemmeno in campo la parola migrante: noi raccontiamo una storia di viaggiatori, di persone, di essere umani. La nostra è stata un’avventura, una grande mascherata. Un po’ come il film Train de vie, in cui a un certo punto ti dimentichi che i protagonisti stanno scappando dai nazisti e che rischiano di essere internati in un campo di concentramento, sono uomini e donne che vivono un’avventura, che gioiscono e che si disperano, che si entusiasmano e che hanno paura. Come tutti.
Foto di Marco Garofalo / Io sto con la sposa
Come vi è venuta l’idea e come avete trovato le persone giuste?
È stato tutto relativamente veloce. Il progetto è nato nel giro di due settimane da quando abbiamo conosciuto, per caso, il nostro protagonista e ci è venuta in mente l’idea.
Com’è successo?
Io e Khaled andavamo spesso in Stazione Centrale o in Garibaldi, a Milano, perché da quando è iniziata la guerra civile in Siria e a Lampedusa sbarcano tantissimi siriani, sono in tanti quelli che arrivano a Milano per cercare un passaggio per la Svezia e che si rivolgono a qualche contrabbandiere, pagando dai 1000 ai 2000 euro a testa. Ci interessava capire la situazione, a Khaled in quanto palestinese siriano colpito personalmente dalla situazione, io invece perché in Siria c’ero stato tante volte, l’ultima l’anno prima, e mi sono affezionato a quella gente e a quella terra. Un giorno, alla stazione Garibaldi abbiamo conosciuto un ragazzo, quello che poi è diventato lo sposo del film. È successo per caso, io e Khaled stavamo andando a prendere un caffè e facevamo due chiacchiere in arabo, non so neanche più di cosa, ma in arabo. Appena lui ha sentito che parlavamo la sua lingua si è avvicinato per chiedere da dove si prendeva il treno per la Svezia. Noi lo abbiamo guardato sorridendo — abbiamo capito al volo che veniva anche lui da Lampedusa — e lo abbiamo invitato a unirsi a noi per il caffè. Al bar questo ragazzo ci ha raccontato la sua storia. Era uno dei superstiti del naufragio dell’11 ottobre, in cui morirono circa 200 persone, ha visto cose atroci e stava cercando anche lui di andare in Svezia. Lui è stato il primo dei protagonisti che abbiamo trovato, poi abbiamo cercato gli altri.
Dopo quel giorno abbiamo discusso molto di cosa potevamo fare per dare una mano a queste persone. Ci aveva molto colpito il fatto che questa gente non ci chiedeva un posto dove stare, un lavoro, del cibo o dei soldi, ma di andare in Svezia. Quindi, dopo qualche giorno ci è venuta in mente questa cosa del matrimonio, ma più come boutade che altro, una di quelle cose che dici tra amici dopo un bicchiere di troppo. Devo dire che a me e a Khaled sembrava più che altro una stronzata, divertente, ma una stronzata. Poi però l’abbiamo raccontata ad Antonio, che tra noi è l’anima cinematografica, e che subito ha detto: «Ragazzi, ma questa è l’idea per un film!».
E poi come vi siete mossi?
Be’, dopo aver avuto un’idea di storia molto forte, quella del viaggio della sposa, e dopo aver trovato il protagonista, era importante trovare anche dei personaggi forti da mettergli intorno. Quando abbiamo conosciuto Manar, un ragazzino rapper, e suo padre abbiamo capito subito che dovevamo averli tra i nostri protagonisti, perché lui e la sua storia sono in grado di colpire e di appassionare il pubblico, che è una cosa fondamentale se vuoi passare un messaggio forte come questo. Lui e il padre tra l’altro erano anche quelli che avevano più bisogno, non avevano più un soldo per pagare un passaggio, e in più il padre era già stato fermato e gli avevano preso le impronte. Però hanno voluto provare lo stesso, era l’unica speranza che avevano. Purtroppo però, proprio per quella storia di impronte, sono gli unici che sono dovuti tornare indietro.
Qual è la loro storia?
È una storia soprattutto di sfortuna: l’ultima volta che avevano provato a fare il viaggio avevano con loro gli ultimi soldi che avevano messo da parte, 1300 euro, e avevano trovato un contrabbandiere abbastanza spietato che organizzava pullman da 50 persone, ma che a ogni persona, come tutti, chiedeva 1000 euro. Abu Manar era riuscito a convincerlo ad accettare i 1300 euro per entrambi, visto che il figlio era piccolino e «valeva di meno». Sfortunatamente per loro il contrabbandiere era sotto controllo della polizia da tempo e quindi, appena passato il confine francese sono stai fermati, identificati e rimandati indietro. Da quel momento, con le impronte registrate, Abu Manar sapeva che non probabilmente non avrebbe avuto la possibilità di andarsene dall’Italia, ma ha voluto provarci lo stesso perché la polizia gli aveva detto che le impronte erano solo per controllare che non avessero precedenti penali. Ma non era vero, e non appena hanno fatto richiesta di asilo politico in Svezia la polizia li ha rimandati indietro in Italia.
Foto di Marco Garofalo / Io sto con la sposa
È il rimpatrio in Italia il maggior problema di questa gente?
No, o meglio, quello più che un rischio è una certezza una volta che vengono identificati in Italia. Il vero problema qui è quello dei contrabbandieri, dei perfetti sconosciuti a cui questa gente si affida pagando dai 1000 ai 2000 euro per essere portati al Nord. E quando va bene ci arrivano veramente in Svezia, ma quando va male vengono lasciati ovunque, gli viene detto che sono arrivati in Svezia, ma invece magari sono in Svizzera, in Austria, in Francia. E anche se provano ad andarci in treno cambia poco: quasi tutti vengono fermati dalla polizia alla frontiera e rimandati indietro.
Il vero problema è proprio il proibizionismo: se lo Stato facesse una politica di proibizionismo e decidesse per esempio che è vietato bere la birra, la gente la birra se la andrebbe a comprare al mercato nero, è normale. La stessa cosa succede con gli spostamenti: se tu vieti alle persone di viaggiare liberamente, queste ricorreranno al mercato nero, che in questo caso sono i contrabbandieri, i passeurs. Il giorno in cui decideranno che non è più vietato viaggiare, prenderanno il treno. Se si rivolgono ai contrabbandieri e pagano quelle cifre è solo perché è l’unico modo di farlo, in treno non hanno alcuna speranza. La Francia, la Svizzera e l’Austria non vogliono che questa gente passi e l’Italia non vuole che questa gente stia qui, per questo la nostra polizia ormai non prende più le impronte digitali, perché — per il regolamento di Dublino II — se lo facessero poi saremmo responsabili della loro accoglienza.
Spiegatemi meglio questa storia delle impronte…
L’Italia, come al solito, sta facendo una cosa all’italiana: in sostanza il ragionamento di Alfano è che se l’Europa non ci aiuta in mare, noi li lasciamo passare. La politica non detta è chiudere un occhio, anche due, basta lasciare i cancelli dei centri di accoglienza aperti e fare finta di niente. Non è una politica dichiarata ufficialmente, perché la legge vuole che queste persone siano subito identificate e registrate all’arrivo, ma è chiaramente una prassi dettata dall’alto. Guarda l’esempio di Milano: in stazione Centrale ci sono giorni in cui sono decine i profughi che aspettano un passaggio e la polizia si limita a controllare che non succedano casini, ha un ruolo “umanitario”, ma non prende mai le impronte, né chiede i documenti. E così anche nei centri di accoglienza milanesi. Si tratta di una sorta di braccio di ferro nascosto. Pensa che le cinque persone che sono venute con noi arrivavano tutte dai centri di accoglienza, e nessuno di loro era stato identificato.
Foto di Marco Garofalo / Io sto con la sposa
Qual è il motivo che vi ha spinto a intraprendere questa avventura?
È molto semplice: noi vogliamo che sia messo in discussione tutto il sistema di leggi che permette che le cose vadano avanti così. Vogliamo che si possa parlare sul serio di libertà di circolazione, un argomento che ora come ora quasi non si può nemmeno citare.
Perché non se ne può parlare?
Perché il discorso dominante dell’invasione dice che se aprissimo le frontiere saremmo invasi da milioni di straccioni e di barbari. Ma basta spiegare che la libertà di circolazione è già realtà in tutta Europa per far capire che è una politica che può funzionare, anzi che funziona già. E non è solo una politica tra stati dell’Unione. Anche per arrivare dall’Albania, per esempio, che non fa parte dell’Unione Europea, non serve più il visto da 3 o 4 anni. Eppure non parliamo di invasione di albanesi in Italia dagli anni 90. È un problema di comunicazione, ma anche di cultura, di narrazione della realtà, e ha plasmato tutto il discorso pubblico. Anche molti dei politici che cavalcano la paura dell’opinione pubblica, ci credono veramente, vivono nel racconto di un mondo che non esiste. E i numeri sono lì a dimostrarlo, solo che per capire cosa vogliono dire i numeri serve saperli raccogliere, valutare e analizzare.
Torniamo all’operazione di crowdfunding, che sta avendo molto successo. Perché avete scelto questa modalità di produzione “dal basso”?
Forse l’opzione del crowdfunding non era obbligatoria. A un certo punto abbiamo avuto contatti informali con Al Jazeera, che era interessata a produrre il documentario, ma abbiamo preferito restare indipendenti, perché loro non si sarebbero limitati a finanziare una parte del progetto e noi non eravamo disposti a trattare né sulla forma né sui contenuti. Il crowdfunding è quindi in parte una scelta di indipendenza e di libertà totale. La nostra è stata anche una scommessa: abbiamo messo sul piatto un progetto scommettendo che ci fosse un pubblico disposto a metterci i soldi. E a quanto pare, visti i risultati parziali — mancano ad oggi 23 giorni e siamo arrivati a quota 65mila su 75 — probabilmente questo pubblico c’è.
Perché avete chiesto 75mila euro, un vero record per una autoproduzione di questo tipo?
Questo film non è stato realizzato solo grazie a noi tre che per qualche settimana abbiamo dormito pochissimo e abbiamo organizzato il viaggio e le riprese, ma grazie a tutti quelli che ci hanno aiutato e che hanno accettato di lavorare a credito, si tratta di circa una ventina di persone, tra operatori, musicisti e altre figure professionali per la post produzione. Per alcune cose ce la caviamo da soli, come per esempio l’ufficio stampa che sta facendo Gabriele.
Abbiamo chiesto 75mila euro perché siamo convinti che un progetto come questo non possa reggersi sul lavoro gratuito delle persone, e tutti coloro che hanno lavorato con noi lo hanno fatto “a credito”. I 75mila euro che abbiamo chiesto servono anche per questo, oltre che per pagare la postproduzione, che ha dei costi elevati, e visto che il nostro obiettivo era portare il film a Venezia avevamo bisogno di chiuderlo bene e in fretta. Ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a coinvolgere e coinvincere un produttore associato veramente d’eccezione, DocLab, che nella scorsa edizione ha vinto il Leone d’oro con Sacro Gra. Ora però la strada è ancora lunga, anche perchp ancora non sappiamo se ci selezioneranno.
Foto di Marco Garofalo / Io sto con la sposa
Cosa sperate di ottenere con questo lavoro, Venezia a parte?
Quello che ci piacerebbe, dopo Venezia, è riuscire a coinvolgere qualche distributore e arrivare nelle sale, sarebbe molto importante per riuscire a sensibilizzare più gente possibile, anche all’estero. Per questo lo stiamo facendo in tre lingue, in italiano, in inglese e in arabo, anche se per l’80 per cento il film è parlato in arabo. L’obiettivo è creare un dibattito qui, ma anche nel mondo arabo e già ci stiamo riuscendo anche grazie al crowdfunding e alla comunicazione sui social, con l’hashtag #IoStoConLaSposa e con una campagna di selfie che sta girando molto.
Che reazioni avete per ora?
Il crowdfunding sta andando molto bene, i donatori sono tantissimi, e la maggior parte mette piccole cifre, il che è una cosa molto bella secondo noi. Non è come altri esperimenti di crowdfunding in cui, a un certo punto, quando mancano pochi giorni arriva qualche sponsor a metterci qualche migliaia di euro. E anche sui social sta andando bene, stiamo riuscendo a parlare a entrambi i mondi, quello occidentale e quello mediorientale, tanto che anche sui media arabi stanno uscendo articoli sul nostro progetto e tanta gente si sta appassionando.
E sui media italiani, com’è stato l’atteggiamento nei vostri confronti?
Hanno dimostrato interesse, ma come al solito la maggior parte delle cose che sono uscite sono copia e incolla dai comunicati stampa, diciamo che di giornalisti che vengono qui a intervistarci ce ne sono pochi.
Qui trovate la pagina per partecipare alla campagna di finanziamento su