Da ragazzino ero affascinato dalle piazze di spaccio, piccoli ecosistemi d’illegalità all’interno di stati di diritto. Le vedevo al tempo stesso come una prova di forza criminale e come un’espressione di un permessivismo del potere. Scoprii poi che le cose erano un po’ più complicate di così.
Quel tipo di piazze ha una particolarità, la loro apparente extraterritorialità è spesso interrotta dalle retate, un rito fatto di urla, violenze e perquisizioni, con cui il potere dialoga a sberloni con il contropotere. Ogni tanto, magari perché c’è scappato il morto, magari perché è arrivato un nuovo questore o perché è imminente la visita in città del sottosegretario alle famiglie monogamiche e timorate di dio, sta di fatto che arriva sempre il giorno in cui da ogni direzione arrivano volanti, furgoni, poliziotti grossi come rugbysti che corrono con il distintivo a tracolla, la pistola in mano, e alla fine in genere spunta anche un cane lupo con gli stessi gusti di un teknoraver in fatto di droghe. Se va bene vengono fatti un po’ di arresti, il commissario della mobile o il capitano dei carabinieri si fanno fotografare sui giornali locali e il giorno dopo si può tornare felicemente a comprare tutto quello che serve esattamente nello stesso posto, o male che vada 100 metri più in là.
Al netto delle storie, talvolta drammatiche, delle persone che sostanziano i due sistemi, legalità e illegalità dialogano e coabitano nella misura in cui ci sono delle esigenze ambientali più ampie: il bisogno, in mancanza di mezzi, di circoscrivere il fenomeno del commercio di droga in un luogo piuttosto che un altro o, in zone dove la criminalità organizzata controlla il territorio, la necessità di non irritare chi è grado di spostare pacchetti di voti attraverso l’economia illegale. Sistemi insomma o in cerca di una difficile ma necessaria convivenza, oppure addirittura simbiotici.
La corruzione e la lotta alla corruzione sono fenomeni per molti aspetti diversi (non c’è un mercato ritenuto illegale bensì l’alterazione di un mercato legale) ma seguono lo stesso andamento ciclico, le stesse dinamiche ondivaghe e lasciano nell’intervallo fra un’emergenza e l’altra l’economia sana alla mercé dell’arbitrio del più forte.
Dopo un paio di decenni arriviamo al limite oltre il quale avremmo definitivamente gli standard di legalità di un Paese del terzo modo, e in genere proprio in questo momento cambiano gli assetti di potere e si apre lo spazio politico per l’equivalente di una grossa retata. I giornalisti gridano allo scandalo, i nuovi leader promettono cambiamento, qualcuno si fa due mesi di domiciliari e restituisce, forse, un po’ di soldi, qualche magistrato viene promosso, magari scrive un libro e diventa un idolo degli studenti universitari, poi con il giusto intervallo di tempo, ricomincia tutto da capo.
Alla logica dell’emergenza che diminuisce i controlli per gli appalti, permette le assegnazioni senza gara e diminuisce la trasparenza, fa da contraltare, simmetricamente opposta, la maxi inchiesta con cadenza pluridecennale.
È la cinica marea sotto la quale stanno anni fatti di una quotidianità in cui non è chiaro cosa dovrebbero fare gli imprenditori, i professionisti, i lavoratori. Aspettare che da lì a 5-10 anni qualcuno faccia giustizia? Chi li rimborserà, dopo le inchieste, dei lavori persi, delle occasioni dissipate per fare spazio ad altri protetti e tutelati, chi rifonderà dei costi enormi sostenuti nell’attesa di un cambiamento, cioè della normalità? Essere onesti costa soldi, stress, insoddisfazioni e tonnellate di cinismo, non proprio un’attitudine ben ricompensata.
Questo rende la nostra società un’ambiente dove solo il più forte (leggi: fornito di una solida rete di appoggi) sopravvive, e ogni novità, outsider o valore aggiunto non istituzionalizzato e sprovvisto di un paracadute all’interno di un gruppo di potere in genere soccombe in silenzio, o talvolta lamentandosi solo come un folle, perché anche quella che chiamiamo ragione spesso si riduce a una mera questione di numeri.
Una quotidianità che non è fatta nemmeno solo e unilateralmente di vittime, perché così come la piazza di spaccio risponde a logiche più ampie, anche la società ad alto tasso di corruzione è fatta di persone che tacciono per quieto vivere, di altre che soppesati i costi e i benefici decidono, in una prospettiva puramente efficientistica, che la scelta migliore tutto sommato è saper stare al mondo, cioè finanziare quel grossolano politico con un ego smisurato in grado di aprire loro ogni porta. O ancora è fatta di commensali di basso rango, persone che fanno a qualche titolo intermedio parte del sistema, o di altre che pur non essendo parte in causa del malaffare non hanno nemmeno dubbi che ad avere l’occasione farebbero lo stesso e quindi, tacitamente, approvano.
Certo questi metodi sono un’ingiustizia, ma un’ingiustizia che nel Paese reale significa potere, denaro e ammirazione, e pazienza se una volta ogni vent’anni si tramuta per un po’ “nell’essere dei ladri” sulle pagine dei giornali. Passerà e poi torneranno, tutti o quasi, a invidiare la tua immagine, seduti dal lato sbagliato della tv comprata a rate.
Bisogna anche essere chiari sul fatto che la corruzione non è inefficiente per tutti allo stesso modo. Anzi. È un sistema che ha, per un gruppo di persone abbastanza ampio, i suoi evidenti vantaggi: elimina il rischio, garantisce la rendita. Certo può generare scandali, e bisogna pagare case, auto e barche ai politici, voli privati a magistrati dai gusti modesti, ma si possono aggiungere questi costi alle fatture gonfiate e in cambio si cancella la concorrenza.
Il che significa meno lavoro da fare, tanti soldi anche nel caso si fosse mediocri o poco più, tanta sicurezza, sogni tranquilli e tanti amici finché dura l’abbondanza, in soldoni: il vero sogno italiano. Per tutti gli altri significa meno mobilità sociale, meno merito, significa lavorare di più, pagare più tasse per coprire gli sprechi, ma cosa ci volete fare, ogni sistema ha i suoi costi e suoi benefici e le sue ragioni di fondo.
Nell’ecosistema delle maree, l’ondata di giustizia è un caso provvisorio e arbitrario del potere, e, sia chiaro, è comunque quello che ci salva dal baratro definitivo, dalla guerra tribale, dalla favela, solo che poi all’indomani dello scandalo arriva sempre il giorno in cui, nel tuo piccolo, dovrai scegliere se far valere i tuoi diritti o chiedere un favore, e dipenderà in maniera circolare dalla tua determinazione e dalle possibilità che ti si aprono davanti.
Ed è lì che può rinascere lo scandalo del futuro, quello di cui ancora una volta tutti parlavano ma nessuno denunciava, o se qualcuno denunciava rimaneva inascoltato. Questo perché alla fine chi scrive davvero il futuro di una nazione è l’ambiente, il Paese, i suoi abitanti, e non tanto mettendo la scheda nell’urna ogni 5 anni per poi lavarsene le mani, bensì ogni giorno, perché potrebbe anche darsi che, a saper riconoscere bene la sua luce, la luna di questo ecosistema delle maree si rifletta anche un po’ negli specchi delle nostre case.
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