Su Fulton Street è tutta una questione di parrucchieri e barbieri, Air Jordan e berretti da baseball. Casacche, negozi a 99 centesimi, pollo fritto, fagioli e riso. Fulton Street è piena di gente, giorno e notte, ogni tanto fischiano le sirene e non si trova un taxi neanche a pagarlo. È lunghissima, costeggia Atlantic Ave, che taglia Brooklyn in due per tutta la sua lunghezza fino al JFK e poi sparisce come è cominciata. Nettamente, dove finisce anche la città. La stessa città che con la sua esistenza fa dubitare della necessità di abitare da qualsiasi altra parte, gli stessi cinque distretti che nessuno al mondo può dire di non aver mai sentito nominare. New York City, che basta un fotogramma a riconoscerla anche se cambia continuamente.
Fa’ la cosa giusta è tutta una questione di brownstone, con gli ingressi rialzati e i gradini ruvidi sulla strada. Gli alberi, che a luglio non fanno ombra e di inverno non riparano dal vento, le scale antincendio che servono da ballatoio, le grigliate nei backyard. Bedford-Stuyvesant è un quartiere che non ha niente, se non i suoi abitanti e il loro orgoglio. Non c’entra nulla con Williamsburg — non è quella Brooklyn lì — ed è evidente già dai vagoni della metropolitana. Linea C, che viene da Manhattan e va a finire nel profondo delle case popolari, passando per i quartieri gentrificati di Dumbo e Boerum Hill. Bed-Stuy contesta Atlantic Avenue a Crown Hights e lo fa con il chiasso di chi ha una storia da far valere.
Il capolavoro di Spike Lee è stato presentato a Cannes nel 1989, ma non ha vinto niente. «Ho a casa una mazza da baseball con sopra il nome di Wim Wenders» ha detto il regista, riferendosi al presidente di giuria di allora e snocciolando tutto quel risentimento che già punteggiava la pellicola a ogni cambio di scena e che aleggia ancora tra Fulton e Stuyvesant Ave. Poi è stato nominato a due Oscar: miglior attore non protagonista per Danny Aiello e miglior sceneggiatura originale per Spike Lee. Nessuno dei due messo in tasca e nessuna nomination come miglior film, altre cose che hanno contribuito a far storcere il naso, in quella maniera pregiudizievole e probabilmente sensata che accompagna le storie di questo tipo. Bed-Stuy nel film non è un quartiere qualunque, intanto perché brucia nel sole della giornata più calda di un luglio di esattamente 25 anni fa, e poi perché è gonfio della rabbia di una nazione nella Nazione, pronta a esplodere come il pump air system delle Nike nelle leggende metropolitane. Come la voce di Chuck D in Fight the Power, da cui poi è iniziato tutto. Non per niente appena Rosie Perez, in short e canottiera davanti al muro di una brownstone, smette di agitarsi come un’indemoniata e la musica rivela la propria fonte nel boom box di Radio Raheem (Paul Nunn), sotto il taglio flat top del ragazzotto compare una t-shirt che dice “BED-STUY DO OR DIE”. Perché da un’altra parte la scintilla non sarebbe scattata, perché senza quella porzione di Brooklyn — oggi uguale ad allora — niente sarebbe successo.
E quello che succede è questo: prima la rabbia scoppia sullo schermo, quando il Mookie/Spike Lee decide di fare la cosa giusta e raccoglie da terra i soldi che il datore di lavoro bianco gli ha tirato in faccia, dopo che tutto è crollato, letteralmente, e Radio Raheem è rimasto a terra. Poi scoppia una catena di critiche negative, che atterriscono Lee come faranno per tutto il resto della sua carriera e lo lasciano a masticare bile assieme ai suoi personaggi. L’accusa è quella di aver messo assieme un film che incita all’odio razziale, e lui tenta di rispondere, appellandosi alla natura del suo protagonista. «Mookie raccoglie i soldi perché i soldi sono il suo dio», dice ma non convince la critica che fa orecchie da mercante mentre il pubblico acclama.
Lo spaccato perfetto della società in subbuglio di Fa’ la cosa giusta è testimoniata dalla sopravvivenza degli stessi sentimenti che popolano la pellicola, venticinque anni dopo. È data dal fatto che lungo Fulton Street c’è ancora qualcuno che alza lo sguardo quando ti vede passare: bianco come un cencio, senza il minimo senso della camminata, senza il minimo senso di trovarsi nel cuore di una comunità che per alcuni è tutto il resto del mondo. C’è quella foto che compare alla fine del film, qualcuno ha detto voluta dal montatore per mitigare l’ultima scena, che sembra che allora nessuno conoscesse — proprio come i Public Enemy — ma che poi è diventata un simbolo. Martin Luther King e Malcom X che sorridono e guardano oltre l’obbiettivo. Verso Bed-Stuy, Gowanus, Crown Hights, Flatbush, Brownsville, persino Greenpoint, Dumbo e Williamsburg.
C’è voluto un po’ di tempo perché Fa’ la cosa giusta guadagnasse il pieno rispetto dell’industria. E questo non vuol dire che l’industria sia crudele o razzista, nemmeno che non sappia riconoscere un capolavoro. Forse vuol dire che per accettare le cose come sono bisogna dare tempo al tempo, e alla vista delle persone tutto il tempo di cui ha bisogno per abituarsi all’oscurità. Un paio di mesi fa Spike Lee ha riunito parte del cast del film per celebrare l’anniversario. Anche questo è un segno di evoluzione, perché non tutte gli attori coinvolti nelle riprese sono state da subito entusiasti. Danny Aiello era riluttante a usare la parola “negro”, soprattutto in un contesto tanto difficile, John Turturro non si sentiva a suo agio a fare la parte del peggior razzista del mazzo e Rosie Perez aveva qualcosa a che ridire con le pretese sfiancanti del regista.
Al tempo di girare Fa’ la cosa giusta, Spike Lee aveva all’attivo solo un paio di lavori. «Quando cresci a Brooklyn, conosci solo quel mondo» ha detto al New Yorker. «Ho girato il film con in testa un immaginario preciso, che per me era l’unico possibile. Stavano succedendo un sacco di cose a New York e noi le abbiamo raccontate, oggi siamo qui perché allora abbiamo detto la verità». Poi quella verità si è un po’ persa, assieme al senso di Lee per le idee vincenti — è uno dei registi col maggior numero di flop all’attivo — ma se gli si deve attribuire un solo merito (io riesco a pensarne un altro paio, ma non è questa la storia), è quello di aver azzeccato l’attimo, il posto e lo spirito delle persone. Che è ancora lì, intatto, a Bed-Stuy, tra gli autobus e le pizzerie. Se dovessimo scegliere nella sua carriera un apice incontestabile, è quello che ha toccato nel 1989, a trentadue anni, quando è uscito per strada e ha fatto la cosa giusta.