Nel solo 2012 in Italia sono stati pubblicati 64mila libri, un dato sorprendente, se non altro perché presuppone un numero almeno pari di persone in grado di leggere e scrivere. Grazie a questo ciclo continuo di abbattimento delle foreste, culto dell’ombelico borghese e produzione di saggi su Renzi, una libreria assomiglia sempre più a una donna che sapevate brillante e a cui volevate molto bene ma che ormai butta la maggior parte del proprio tempo dietro a mode che durano un mese e il cui acuminato spirito critico ha finito con il tempo per smussarsi nella tondeggiante forbice per bambini del conformismo.
Eppure la libreria come luogo ha ancora tutto il potenziale per rivelarsi il miglior punto di partenza per la vostra estate, tutto sta nel saper titillare i giusti scaffali, ed evocare così il vecchio splendore di quando essa era il vertice mancante del triangolo d’amore fra voi e il divano.
Ognuno di noi ha dei preferiti, dei libri fondamentali, libri che ama e sa perfettamente quant’è bassa la percentuale d’innamoramento nella foresta dei 64mila. Il rischio all’ombra delle torri di cellulosa è sempre quello di perdersi (a 18 euro a tentativo) e finire per mancanza di idee a leggere roba tipo David Foster Wallace, idolo incontrastato delle persone che organizzano corsi di scrittura creativa nonostante sia — o forse proprio per questo — uno degli autori più sopravvalutati da quel mattino in cui Gutenberg si svegliò con un paio di idee sui caratteri mobili che forse valeva la pena di provare.
Emancipandomi per una volta dalla dittatura del nuovo che sempre affligge la pratica delle recensioni, in questo pezzo segnalerò quattro libri non recentissimi ma che potranno darvi grandi soddisfazioni sotto l’ombrellone. Libri che hanno il pregio di non sforzarsi di sembrare intelligenti e complessi per convincere un ventenne che scrivere racconti sia un lavoro preferibile ad amministrare il patrimonio immobiliare di famiglia, ma di esserlo.
Il che non è male, specie se vivete in affitto.
Apocalisse da camera
di Andrea Piva
Quando nelle conversazioni con amici vengono fuori i nomi di alcuni fra gli scrittori italiani più in voga sono spesso costretto a emettere i gradevoli ultrasuoni di spaesamento e angoscia del gatto gettato in lavatrice. In questi casi la reazione più comune delle persone che sono con me, oltre ad aggiungere del coccolino e assicurarsi che io stia sotto i 40° se no scolorisco, è chiedere:
«Allora dimmene uno tu».
Prescindendo dal fatto che di solito già le schede carburante della vostra auto sono per plot e cura linguistica un’ottima alternativa a buona parte della classifica, la mia risposta standard è:
«Apocalisse da camera» di Andrea Piva. Di solito seguono commenti come:
«Sì vabboh, ma tipo libri che qualcuno ha letto».
In realtà quando uscì nel 2006, in era pre-social quando esistevano cioè ancora persone che leggevano libri, la prima tiratura di questo piccolo capolavoro andò bene ma Einaudi Stile Libero per motivi misteriosi decise di non stamparne una seconda. Da allora attendo con fiducia la venuta dello spazio profondo di una razza di alieni, profondi conoscitori e amanti della letteratura, le cui prime parole sarebbero senza dubbio: « Come avete fatto a non onorare il potente Piva e preferirgli la Gamberale e davidfostercoso? Voglio dire, non tutti sono ventenni che vogliono scrivere racconti. Ora ci toccherà vaporizzarvi tutti. Non avremmo voluto ma a questo punto è inevitabile ». Prendete quindi quello che segue come un garbato consiglio letterario ma anche come un incentivo a salvare la razza umana.
Apocalisse da camera è la storia altamente formativa di Ugo Cenci, giovane barese cultore della materia (una specie di assistente universitario ma privo di stipendio) in filosofia del diritto, devoto consumatore di cocaina, perennemente perso in elucubrazioni molto spesso divertenti e quasi sempre amorali, oltreché in tentativi di ingropparsi giovani studentesse, semianalfabete sì, ma fortemente determinate a impossessarsi di quel feticcio sociale chiamato laurea. La scrittura di Piva è una commistione, pressoché unica nel panorama letterario italiano contemporaneo, di prosa raffinata e attentissima alle scelte linguistiche, talvolta circonvoluta ma mai fine a se stessa o masturbatoria, unita ad un ritmo sostenuto, divertente e declinato su tematiche contemporanee. E per tematiche contemporanee intendo “che riguardano anche quella parte di popolazione italiana che non vive a Roma nord e non va dall’analista tre volte a settimana”. Dal punto di vista temporale Apocalisse da camera si è inserito nella tradizione letteraria dell’inetto un istante prima che questa figura idealtipica del romanzo psicologico, talvolta al centro dei libri ma sempre ai margini della società, uscisse dal suo recinto di carta per diventare con la crisi del 2008 un fenomeno giovanile di massa. Pur tenendo conto che anche in un mondo con milioni di inetti sociali forzati, i personaggi con il superiore spessore intellettuale di un Ugo Cenci sono sempre necessariamente pochi. una cronologia un po’ più fortunata avrebbe forse potuto favorirne un successo commerciale di maggiori entità. Apocalisse da Camera rimane tuttavia un libro che non può mancare a casa vostra, specie se siete di quelli che spaccano il cazzo su Facebook sui vari Fabi Voli e Bruni Vespi come se le sciampiste e gli ex appartenenti a Gladio non avessero diritto a leggere un libro ogni tanto. Piccolo aneddoto: molti anni dopo averlo letto e averlo sistemato in ottima compagnia al piano Zeus e i suoi piccoli amici dell’Olimpo della mia Billy, mi è capitato di conoscere il diabolico Piva. Dopo aver realizzato diverse sceneggiature (La capa gira, Mio cognato ecc.) e appunto Apocalisse era arrivato a stimare talmente tanto la scena culturale italiana da preferirle il poker professionistico.
Un motivo per amarlo ancora di più.
Una mattina Ugo se ne stava sotto l’ombrellone a leggere un passaggio crudissimo di un bel libro ambientato ai tempi della Grande guerra, e aveva il cuore sciolto in una specie di pappetta davanti alla strage efferatissima in cui stava indulgendo la narrazione, quando altoparlanti di cui lui non sospettava neanche l’esistenza si misero a diffondere ad altissimo volume una musichetta orecchiabile e piena di bassi, cui faceva sponda una vocina sottile sottile che in spagnolo comandava le mosse a un ballo collettivo. Diceva di mettere una mano lì e una là, di spostarsi di un passo e poi saltare, insomma Ugo aveva la sensazione che la musichetta ce la mettesse tutta per sbeffeggiare il suo raccoglimento e umiliare lui, la sua empatia per l’orrore del fronte e il doloroso sforzo di chi quelle cose aveva prima vissuto e poi narrato con tanta tenerezza e dolore. Ugo si ritrovò a pensare che in un mondo di un solo millimetro più vicino al giusto rispetto al nostro gli autori di quella canzone sarebbero stati scuoiati lentamente davanti ai propri cari, ma senza cattiveria, con un sorriso bonario e la stanca determinazione di chi si fa braccio di un destino ineluttabile, e immersi in un secondo tempo, ancora vivi, nel sale.
A chi l’aveva messa sul piatto in quel momento si sarebbe indulgentemente accordato il diritto di morire subito, mediante fucilazione. E Ugo avrebbe ripreso in santa pace la lettura dello struggente racconto. Ma il mondo era questo, il cantante dalla vocina sottile aveva un conto in banca pieno di zeri e la canzoncina riscuoteva un grande successo presso gli ombrelloni vicino al suo.
Bangkok
di Lawrence Osborne
A metà fra il reportage e il romanzo, Bangkok è un libro intriso di un’originale forma di decadentismo contemporaneo, ricco d’ironia, leggerezza e di profondo e disperato nichilismo. ( profondo e disperato nichilismo è la tag che ricorre di più nelle mie schede libro sopra la sufficienza, assieme a “contiene tracce di cioccolata”). Lawrence Osborne, giornalista inglese spesso senza un soldo, galleggia in una Bangkok che studia senza alcuna pretesa di capirla fino in fondo. Il protagonista è parte di una microcomunità di espatriati occidentali la cui partecipazione al mondo in cui hanno scelto di vivere non va quasi mai oltre il grado minimo di confidenza che si crea dopo un paio di settimane passate in una terra straniera. Solo che qui passano gli anni e questi bianchicci uomini di mezz’età, sconfitti altrove dalla vita, restano volontariamente sospesi in un limbo fatto di una ristretta manciata di frasi operative in thai, una puttana di fiducia, e il nome di un paio di locali dove non cercano di fregarli. Saldamente dentro, cioè, una sorta di disincantata parodia a basso costo del colonialismo.
Affascinato osservatore esterno del Paese, Osborne si muove quasi come fosse invisibile e perennemente sullo sfondo, tacitamente accordato sulle note melanconiche dei suoi compari. Assiste allo scorrere del tempo in un luogo che fa del sincretismo tamarro la sua cifra estetica, abitando talvolta serafico talvolta diabolico ma sempre senza sapere esattamente perché, quella sordida e consumistica unione di tutti i fiumi simbolici del mondo che è Bangkok, una confluenza così dichiaratamente falsa agli occhi di chi proviene dai luoghi d’origine dell’iconografia occidentale, da uccidere ogni idea possibile di casa, di verità, di senso.
Bangkok per Osborne è un luogo dove l’illusione è talmente palese e grottesca da perdere ogni credibilità e diventarne il fantasma dichiarato e tuttavia inevitabile, un luogo dove la concezione disincantata della fisicità e della vita riecheggia consapevolezze ancestrali. Decadenza e insensatezza per salvarsi dalle quali non basta neppure il silenzio complice della lingua straniera, ma che pure non assurgono mai davvero a tragedia perché ovunque nelle pagine si percepisce l’adesione di Osborne alla cifra orientale dell’esistenza: l’inestricabile alternanza di dolore e piacere. Una concezione della vita rispetto alla quale la mai nominata ma sempre presente ansia di felicità occidentale assomiglia più a una nevrosi che a un altrove desiderabile.
In un certo senso Bangkok, con i suoi tempi infinitamente lunghi e dilatati, narrati per contrasto in modo avvincente, lucido e ironico, è una sorta di anti-romanzo psicologico. Osborne non si prende la briga di dimostrare che la nostra vita è scandita delle velleità attraverso lunghi dialoghi pieni di conflitto, scelte, tensioni, litigi, preferisce andare dall’altra parte del mondo e lasciare che queste verità vengano a galla da sole, filtrando come acqua fra le dure rocce delle vite di persone che al gioco civile che ben conosciamo hanno preferito rinunciare fuggendo in terra straniera senza per questo ottenere alcuna forma di redenzione.
“ Patetici” sarebbe stata una parola troppo forte per i suoi vagabondaggi notturni lungo il Sukhumvit, anche se lui li avrebbe definiti “pietosi”. A parte tutto, ormai (Charlie ndr) era un vecchio sporcaccione e i vecchi sono chiaramente chiamati a scegliere la dignità, la neutralità, l’asessualità, o meglio, ad accettare una scelta altrui, perché fosse per loro si regolerebbero diversamente, come chiunque in possesso delle sue facoltà mentali. Nessuno rinuncia alla vita e, per quanto decrepiti, i vivi non sono asessuati né lo diventano con il tempo. Mrs Suut me lo aveva fatto capire una volta per tutte, mostrandomi la sofferenza che il sesso impone alle persone vecchie e brutte. Dukkha . La sofferenza era qualcosa che secondo Brian le puttane buddhiste capivano meglio di chiunque altro, perché sentivano che derivava dal piacere.
Cronache del rum
di Hunter S. Thompson
Cronache del rum è il romanzo giovanile di Hunter S. Thompson, pubblicato solo parecchi anni dopo la sua stesura e dopo essere stato rifiutato al tempo da molte, lungimiranti, casa editrici. Libro abbastanza sui generis rispetto al resto della produzione di Thompson, è evidentemente un’opera giovanile (seppur rivista prima della pubblicazione), ma in un modo che non è necessariamente uno svantaggio. Qui in uno stile quasi minimale, perfetto esempio del tanto fondamentale quanto spesso ignorato “Show don’t tell” che in italiano significa grossomodo “E ora parlaci di qualcosa che non sia la tua lanugine”, un dottor gonzo ante litteram porta in giro il lettore per un Portorico afoso, ricco di rum a buon mercato ed elevati gradi di paradossalità. Il Paese straniero però rimane ancora più sullo sfondo che in Bangkok e gli unici veri protagonisti della storia sono Paul Kemp, l’alter ego di Thompson, e i giornalisti del Daily News, disastrato quotidiano locale in lingua inglese e, ovviamente, una donna contesa sin dalle prime pagine, le stesse dove per dare subito la nota al lettore, Kemp maltratta un vecchio indifeso sull’aereo che lo porta sull’isola. Libro povero di riflessioni (ma le poche che ci sono, sono preziose), si nutre e si sostanzia di personaggi in perpetuo movimento attraverso una cinesi inarrestabile che spesso si autogiustifica. Fra rassegnazione esistenziale e speranze di un successo in un altrove poco chiaro, Cronache del rum si snoda ondivago e sudato in un plot in cui si incrociano e si scontrano i giornalisti vecchi con quelli giovani, quelli simpatizzanti di sinistra con i reazionari e con quelli a cui non frega nulla, i volenterosi con i fancazzisti, gli alcolizzati e… beh no, gli alcolizzati con gli alcolizzati. Anche questo è un libro su una specie di limbo, Portorico, dove però la rassegnazione non è una condizione universale, ma solo quella che a tutti, compresi quelli che la rifiutano, sembra la soluzione più sensata, una rassegnazione che si fa ambiente, come l’afa, il rum e la povertà del luogo. Cronache del rum è un libro sull’ultima chiamata che arriva troppo presto, sul passaggio dall’età in cui credi di essere un adulto a quella in cui lo diventi davvero, su quanto sia doloroso, complicato e forse neanche così appagante trovare davvero un posto nel mondo, e soprattutto è un libro senza nemmeno una parola di troppo, il che lo rende ancora più prezioso
Sono rimasto seduto lì non so quanto, a pensare a un sacco di cose. In primo luogo al sospetto che i miei strambi e ingovernabili istinti potessero fottermi prima che potessi fare i soldi. Non importava quanto le volessi, tutte quelle cose che solo i soldi mi avrebbero garantito: c’era una corrente infernale che mi trascinava nella direzione opposta, verso l’anarchia e la povertà e la follia. L’esasperante convinzione per cui un uomo può condurre una vita decente anche senza sputtanarsi.
Mammifero italiano
di Giorgio Manganelli
Mammifero italiano è la più intensa storia d’amore che mi sia capitata negli ultimi tempi e se pensate che per questo la mia sia una vita triste, con ogni evidenza non avete ancora letto questo libro. Per chi non lo conoscesse, Giorgio Manganelli è uno scrittore che ha affiancato una ben nota produzione raffinata, altissima, sperimentale, ad una carriera quasi parallela di corsivi su quotidiani e riviste, Mammifero italiano è una selezioni di quest’ultimi. Lontano diverse galassie dal moralismo trombone a cui ci siamo nostro malgrado abituati oggigiorno, il corsivo di Manganelli si muove con una disarmante naturalità fra i piani del discorso; si immerge nell’argomento e rispunta là dove non te l’aspetti, con una conclusione che non è una conclusione ma un’apertura e ciononostante spesso è rivelatoria, quasi epifanica. Mai scontato e mai alternativo per forza, Manganelli affianca al ragionamento uno stile che non è puro orpello ma parte sublimemente organica dell’esposizione, ogni scelta linguistica dischiude infatti mondi e suona perfettamente la sua parte nell’armonia clandestina e iconoclasta del discorso. L’obiettivo qua non è mai il nemico, ma l’uomo, compreso quindi l’autore stesso. Perfettamente conscio dei meccanismi dello humor anglosassone, Manganelli li mischia a un uso alto ma efficace della lingua italiana. Leggere Mammifero italiano con la giusta attenzione è un orgasmo letterario continuo, una gioia disarmante nel contemplare un tale quantità tecnica unita indissolubilmente a tanta intelligenza
(…)Orwell a proposito del matrimonio disse: «Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quello che la gente pensa del matrimonio». I tempi corrono, ed oggi la situazione è più complessa. Tra gli inquisiti non c’è più solo l’altro coniuge ma i figli. È bene accertare se fra loro qualcuno sappia usare armi da fuoco, mazze ferrate, o abbia una modesta competenza in fatto di veleni. Se muore un bambinello in circostanze sospette, sarà bene vedere se reca tracce di ecchimosi, se era denutrito, o genericamente detestato (…) Si possono sospettare quali siano le ragioni di questa conflittualità occulta, in primo luogo la convivenza indefinita, misurata a decenni, di poche persone in breve spazio è innaturale. Si aggiunga che qualcuno sa che qualcun altro lo seppellirà, e lo sa anche l’altro. (…) Ma penso anche ad una ragione più radicale. Il nostro tempo feroce e fatuo ci ha imposto una scoperta terribile e stupenda: la solitudine. Oggi non occorre essere eremiti c’è solitudine per tutti. Difficile è la solitudine ma affascinante il colloquio segreto, l’ininterrotto dialogo di un sé con un sé più oscuro e misterioso, ascoltare la voce dei diversi “io” che diversamente si parlano. La nostra vita oggi è affidata a questo lento esercizio. Ora io posso vivere la solitudine in una città, in una folla, ma non la posso vivere in una famiglia, dove tre o quattro persone si toccano, si scorgono, si guardano, si indagano, si giudicano. Qualcuno aggiungerà “si amano”. Talora è vero, ma dal punto di vista della solitudine la minuta, collezionistica insistenza dell’amore continuo può essere inquietante. Inoltre chi ama difficilmente rinuncia a “capire”, e questo può essere intollerabile. Nella famiglia italiana, oggi la solitudine è sostituita dall’isolamento. (…) Famiglie sull’orlo della cronaca nera sono state redente da un gatto; forse un giorno si studierà la funzione degli animali domestici come sintomi della famiglia disturbata. Oggi bastano i piccoli felini; domani, potrebbero essere necessario importare quelli grandi, quelli di Salgari.