Sarà la pressione delle riforme istituzionali, sarà la complessità del quadro internazionale ma le bocciature europee e l’ostruzionismo del Parlamento segnalano la necessità da parte del governo di cambiare metodo di lavoro, sia in Italia che in Europa. In un Paese, tutto è riformabile ma ci sono alcuni interventi che sono più urgenti di altri e, se le risorse umane e finanziarie a disposizione non sono infinite, è necessario dare priorità ad alcuni obiettivi. È infatti importante per la credibilità stessa dell’esecutivo (e quindi per l’efficacia delle sue azioni) che slittamenti e ritardi siano percepiti come una decisione voluta e consapevole, piuttosto che come una scelta subita o, peggio ancora, causata da un’errata programmazione.
La scelta di porre delle priorità deve anche tener conto che alcune riforme non possono essere lasciate a metà, altrimenti i buoni intenti si trasformano in pessimi risultati. Prendiamo il caso della riforma del mercato del lavoro, giustamente considerata fondamentale per l’economia italiana. Si è effettuato l’intervento sui contratti a tempo determinato, ma il Jobs Act è stato rimandato a settembre a causa dell’ingorgo parlamentare.
Ancora più importante è inserire la manovra degli “80 euro” all’interno di una riforma completa del fisco, altrimenti tale intervento rischia di risultare solo una mossa dubbia da un punto di vista “redistributivo” e un azzardo per i conti pubblici.
È di questi giorni la notizia che il numero di poveri assoluti ha raggiunto le sei milioni di unità; fra questi vi sono pensionati, lavoratori autonomi e anche dipendenti a basso stipendio. Chi ha goduto degli 80 euro è solamente il lavoratore dipendente. Non è stata considerata la composizione del nucleo familiare né la tipologia di contratto lavorativo. Guadagnare 20.000 euro da part-time, single o giovane, e guadagnare la stessa cifra da capofamiglia, con figli o disabili a carico e senza nessun altra fonte di reddito, è una bella differenza.
Se il governo si fermasse agli 80 euro senza riformare il sistema degli ammortizzatori sociali e in mancanza di una revisione complessiva dell’Irpef (base imponibile, carichi famigliari, fonti di reddito, detrazioni, …), i danni per l’equilibrio sociale del sistema fiscale italiano sarebbero maggiori dei benefici di breve termine sulla spesa aggregata.
Il governo, tra le altre cose, sembra aver paventato la possibilità di dimezzare la quota di co-finanziamento ai fondi Ue per garantire gli 80 euro anche il prossimo anno. L’Italia rischia di infrangere il limite del 3% per il deficit pubblico; non avrebbe alcun senso sacrificare altre poste di spesa, come gli investimenti, politicamente meno sensibili. Sarà vero che quei soldi non riusciremo mai a spenderli tutti, ma l’immagine del contadino che taglia il ramo su cui è seduto sarebbe una scelta incongruente a un governo che, in 100 giorni, voleva cambiare verso all’Italia e all’Europa.