Sostenere la fertilità si può, riformando il lavoro

Sostenere la fertilità si può, riformando il lavoro

Vista la tradizionale importanza che viene data alla famiglia, la bassa fecondità del nostro Paese risulta un fenomeno strano. Tuttavia, il declino della fecondità, non solo in Italia, ma anche nei principali Paesi sviluppati è un fenomeno comune e serio, che rischia di avere ripercussioni rilevanti da un punto di vista sociale ed economico.

Come mostrato nella figura 1, a partire dal 1970, il tasso di fecondità italiano è diminuito di pari passo con quello dei principali Paesi europei considerati, raggiungendo un minimo di 1,3 figli per donna a metà degli anni ’90 per poi risalire molto lentamente al di sopra di questa soglia critica.

Tuttavia, il dato medio italiano, come accade per molte statistiche del nostro Paese, nasconde molta varianza interna che rivela divergenze significative fra Nord e Sud. La figura 2 mostra il tasso di fecondità seguendo la ripartizione in cinque aree geografiche. Nel pannello di sinistra si può osservare che il Nord e il Centro, a metà anni ’90, hanno mostrato un calo della natalità molto più sensibile rispetto a quella che si è verificata nel Mezzogiorno. Allo stesso tempo, a partire dal 1995, le regioni settentrionali mostrano una ripresa più consistente, arrivando addirittura a superare il Mezzogiorno, nel 2005.

Si potrebbero chiamare in causa diversi fattori che potrebbero aver contribuito a questa dinamica, tra cui, certamente, la maggiore ricchezza. Il pannello di sinistra, però, mette in luce un elemento che ha sicuramente giocato una parte senz’altro determinante: l’immigrazione. Gli stranieri hanno un livello di fecondità nettamente superiore agli italiani; questo ha avuto un ruolo più marcato al Nord, dove il numero di immigrati è maggiore. Al netto del ruolo importante degli immigrati, il Mezzogiorno continuerebbe ad avere una fecondità leggermente superiore al Nord ed al Centro.

In questo quadro si può ben vedere come una popolazione anziana sempre più numerosa a causa di una maggiore longevità sarà bilanciata da una popolazione giovane sempre più ristretta. Questo destino ci accomuna anche gli altri Paesi, naturalmente (figura 3). Il tasso di dipendenza degli anziani, che, negli anni ’70 era pari a meno di due anziani ogni dieci persone in età lavorativa, crescerà sino ad arrivare, nel 2050, a più di un anziano ogni due persone in età lavorativa. Questi numeri dovrebbero preoccuparci non poco, viste le forti pressioni che questo fenomeno avrà sul sistema sanitario e previdenziale, sul mercato del lavoro e sul risparmio.

Per sostenere la natalità, la politica economica può avere un ruolo importante, ad esempio erogando sostegni economici, oppure aumentando la disponibilità di asili e facilitando il part-time per le giovani madri. In questo ambito, le risorse messe in campo dal nostro Paese appaiono abbastanza limitate rispetto ai nostri vicini europei. La Francia, che più è vicina alla soglia di due figli per donna, impiega più del doppio delle risorse rispetto al Pil, così come l’Irlanda.

È probabile che in passato la carenza degli aiuti statali fosse compensata dalla presenza di un esteso tessuto di relazioni famigliari che forniva supporto economico e sostegno, che oggi è, almeno in parte, venuto meno. Fra l’altro, esistono riforme a costo relativamente basso che potrebbero influenzare la natalità portando anche altri benefici. La precarizzazione del lavoro dei giovani, spesso intrappolati in una serie di contratti atipici o a termine, rappresenta certamente un elemento importante e influenza notevolmente la possibilità dei giovani di progettare una vita autonoma. Una seria riforma in questo ambito, oltre ai numerosi benefici in termini di prospettive lavorative per i giovani, potrebbe forse aiutarli a trovare una stabilità più adatta a mettere su famiglia.

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