In soli 25 anni, un quarto di secolo, abbiamo cancellato e ricoperto di cemento gli oltre 8mila chilometri di coste italiane. Pinete costiere, stagni e foci dei fiumi sono stati fatti fuori a suon di villette, palazzi, villaggi turistici, piscine e campetti. Le foto satellitari pubblicate dal Wwf nel suo ultimo report “Cemento coast to coast” non perdonano. Da Nord a Sud, le ferite peggiori si trovano in Sardegna, Sicilia e Calabria. Dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli occupata poi da un mega villaggio turistico alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Sangro in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata: 312 i giganti di cemento censiti dal Wwf dal 1988, che hanno sotterrato letteralmente le nostre spiagge. Ormai, scrivono, meno del 30% delle coste italiane è libero dalle costruzioni.
Un quadro che conferma quanto denunciato quest’anno dall’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che ha definito lo stato di conservazione complessivo degli habitat costieri di interesse comunitario «non soddisfacente (cattivo o inadeguato) per l’86,7%».
Le conseguenze? «Non solo bellezza che scompare o natura cancellata, ma una ricchezza economica che sperperiamo e che solo una visione miope e scellerata può consentire», scrivono dal Wwf. Il problema è che «di tanta meraviglia non esiste un ‘custode’ unico». Ad oggi, «nessuno sa chi realmente governi questo bene la cui gestione è ‘condivisa’ a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali), con il risultato di una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo».
Da un lato c’è l’erosione costiera (tra il 1950 e il 1999 il 46% delle coste basse ha subito modifiche superiori a 25 metri), dall’altra c’è l’inarrestabile consumo di suolo. E questo è a opera nostra. I dati parlano chiaro: la densità di popolazione sulle coste è doppia rispetto alla media nazionale, senza tener conto dei flussi stagionali e delle presenze turistiche, e si calcola che (dati Istat) il 30% della popolazione italiana viva stabilmente nei 646 comuni costieri, cioè su un territorio di 43mila chilometri quadri, pari a circa il 13% del territorio nazionale. Tutto questo ha portato a un incremento nel consumo di suolo: dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10 % è artificiale e alterato dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali e industriali. Che tradotto significa: cemento. «Questa massiccia urbanizzazione della costa ha portato anche un progressivo aumento del rischio legato a eventi naturali (tempeste, erosione, inondazioni)», si legge nel rapporto, «determinando di conseguenza la costruzione di difese artificiali e opere per mitigare localmente i processi di erosione (pennelli, barriere, scogliere, gabbionate metalliche ecc.)». Opere che, come ci racconta la cronaca, risultano però spesso inefficaci o addirittura controproducenti. Poi c’è l’inquinamento, con lo scarico di sostanze liquide e solide. Nel nostro mare finisce di tutto, tra impianti di depurazione mal funzionanti e fuori norma, scarichi civili non depurati, liquami degli allevamenti non depurati, acque usate per l’agricoltura. E molto spesso la conseguenza è anche il divieto di balneazione. In questo quadro, il turismo, che pure è un’entrata fondamentale per il nostro Paese, gioca la sua parte. Dalle carte gettate sulle spiagge alla più invasiva sottrazione di centinaia di metri alle spiagge.
L’analisi condotta dal Wwf negli ultimi 25 anni ha permesso di individuare 78 siti d’interesse comunitario (Sic) che diventano 92 se integrati con quelli che sono stati analizzati già nel dossier Wwf/Lipu del 2013, direttamente interessati da “impatti rilevanti” dovuti all’attività umana. La regione più colpita è la Sardegna con ben 20 aree “interessate”, seguita a ruota dalla Sicilia con 18. Gli interventi sulle 92 aree “colpite” sono 133, visto che spesso uno stesso sito è interessato da più “impatti rilevanti”. Sena contare gli interventi non rilevabili dalle foto e che non sono stati censiti, come quelli di malagestione o di inquinamento.
«Si costruisce un po’ ovunque», dicono dal Wwf. «Come avvenuto lungo la costa adriatica nei primi 50 dal dopoguerra così sta succedendo un po’ ovunque, perpetuando le stesse logiche insediative che hanno caratterizzato quel periodo. In particolare continua ad essere evidente una generale carenza di programmazione che delinea un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno». La richiesta, da parte della associazione, a governo e Parlamento è «l’introduzione di una nuova normativa di salvaguardia ad hoc per le coste che, ad aggiornamento della legge Galasso del 1985, estenda da 300 metri sino ad almeno 1000 metri dalla line di battigia la tutela delle aree costiere». Peccato che questa misura, introdotta nel Piano paesistico della Sardegna redatto dalla Giunta Soru, sia stata poi smantellata come un castello di sabbia, appunto.