«Che fine hanno fatto i 20 miliardi? Semplice, non ci sono». A domanda, l’alto funzionario del governo risponde con sincerità. Poi aggiunge come tra sé e sé: «E forse è meglio così». Al volgere del mese in cui vanno in parlamento tagli, ritagli e frattaglie della spesa pubblica, per lo più senza effetto vista la scalata del debito pubblico, la legge finanziaria (pardon di stabilità) non c’è ancora. Non solo. Sono venuti a mancare i suoi presupposti. A questo punto, sarebbe un atto di onestà, ancor prima che di coraggio, ricominciare da capo e lasciar perdere le raccomandazioni della Ue.
Partiamo da qui. Bruxelles chiede di recuperare l’1,4 per cento del prodotto lordo, soprattutto attraverso la riduzione della spesa corrente; mezzo punto serve per aumentare il sovrappiù del bilancio strutturale (cioè al netto del sostegno della congiuntura) e mettersi in linea con il fiscal compact che scatta nel 2016; il resto va a finanziare le riforme strutturali. Ma questo calcolo parte dal presupposto che il pil cresca dello 0,6 quest’anno e dell’1,4 nel 2015, stime già inferiori a quelle del governo. Invece, la modesta ripresa della quale parlava Mario Draghi, si sta trasformando nella terza caduta in recessione, un triple dip. L’Ocse prevede -0,4 quest’anno e appena 0,1 l’anno prossimo (un punto in meno dei calcoli precedenti); un po’ meglio il Fmi (-0,1 e +1,1), ma in ogni caso bisogna rifare i conti.
La spending review è morta e sepolta. Sulle cause della sua scomparsa si può aprire un dibattito infinito, ma una delle ragioni è che lo stesso governo non ci crede. Tanto che ha contro-proposto un taglio del 3% deciso da ogni ministro. Ma su quale base? Se il parametro di riferimento è la spesa dei ministeri, si tratta di risparmiare poca cosa, circa tre miliardi. Fa testo Beatrice Lorenzin, ministra della salute, decisa a ridurre 40 milioni su una spesa sanitaria di 111 miliardi. Lasciando fuori sanità, pensioni e stipendi degli statali, la torta si riduce all’acquisto di beni e servizi, una fetta da non trascurare, ma piccola; inoltre, produrrà i propri effetti tra un paio d’anni.
Nemmeno le riforme strutturali, mitiche quanto indispensabili, daranno frutti prima di due o tre anni, secondo gli studi del Fmi. Intanto l’Italia continuerà a scivolare nella recessione. Una politica di bilancio restrittiva non farebbe che spingere la palla di neve lungo la scarpata, dunque ci vuole uno stimolo per rimettere in moto la domanda interna, quella per consumi e quella per investimenti. È da qui che deve ripartire la prossima finanziaria. Come?
A questo punto le ricette divergono. Il governo pensa a qualche alleggerimento fiscale, questa volta alle partite Iva e alle imprese, finanziato con risparmi di spesa finché è possibile. Chiamiamolo piano A. Il piano B è quello su cui battono Francesco Giavazzi e Guido Tabellini: tutte le risorse recuperabili, e anche di più, vadano a una robusta riduzione delle imposte sui redditi; così il deficit sul pil supererà il prossimo anno il 3%, ma la congiuntura riceverebbe un sicuro impulso e dal 2016 anche le finanze pubbliche torneranno in linea; nel frattempo faremo contente la Ue e la Bce con la caduta del totem (l’articolo 18). La Banca d’Italia, in particolare il governatore Ignazio Visco, insiste che bisogna aumentare subito gli investimenti, quelli pubblici, ma soprattutto quelli privati; per far questo occorre azionare una serie di leve che debbono diventare l’asse della prossima finanziaria. È il piano C che non prevede, però, di sfondare il fatidico tetto del 3%.
Il piano D è ben più radicale e riguarda l’intera Europa: una chiara politica di spesa pubblica in disavanzo per aggiungere una buona dose di domanda effettiva (consumi più investimenti) mentre la Banca centrale europea acquista titoli pubblici o quanto meno offre loro copertura in modo da bloccare qualsiasi attacco speculativo sui mercati. La proposta viene da Adair Turner ex capo dell’autorità britannica sul controllo della finanza (un tecnocrate che viene dal mondo degli affari, non certo un uomo di sinistra) e trova ampio consenso tra gli economisti inglesi e americani; è in pieno stile keynesiano, ma ormai anche i neoliberisti e i teorici dell’offerta (ultimo della serie Luigi Zingales da Chicago) riconoscono che la zona euro soffre di una carenza acuta della domanda. Sperare che sia la Germania a fare da locomotiva è insensato perché la domanda interna tedesca non è mai cresciuta più di un punto percentuale nemmeno prima della Grande Recessione. In ogni caso, la politica fiscale di Berlino privilegia il bilancio in pareggio nel prossimo triennio e non prevede nessuno stimolo neppure agli investimenti pubblici.
Il piano D, inutile ricordarlo, trova nettamente ostile la Germania che nel corso del G20 in Australia, sabato scorso, ha apertamente criticato Mario Draghi perché ha fornito troppa liquidità a un sistema che non riparte per mancanza di riforme strutturali e non per carenza di moneta. Dunque, se non passa in Europa, figuriamoci in Italia. Al governo Renzi realisticamente non resta che muoversi a cavallo tra piano B e piano C. Ma una legge finanziaria fatta di tanti piccoli aggiustamenti, concedendo un tanto all’uno un tanto all’altro non avrà nessuna efficacia. Meglio concentrare le risorse (scarse) a disposizione, per dare un impulso deciso. Quanto al debito sul pil, va affrontato finalmente dal lato del denominatore, cioè la crescita. Il deficit del 3%? Sarà un risultato, come è giusto che sia e come doveva essere. Averlo trasformato in un prerequisito non ha fatto che peggiorare la crisi. C’è ancora bisogno di altre dimostrazioni per questa verità lapalissiana?