La scuola media è un punto dolente nel panorama scolastico italiano. Vista un po’ come un limbo, una terra di mezzo né carne né pesce di cui non si capiscono bene il significato e le finalità. Per me, anziana ex-insegnante sempre un po’ fuori dalle righe, non è così. A patto di modifiche sostanziali, la scuola di mezzo potrebbe divenire il fulcro educativo della persona umana.
Non c’è nel documento “La buona scuola” un capitolo preciso nel quale si parli in modo specifico di questo ciclo e di una sua riforma, tuttavia vi sono spunti diffusi e possiamo sempre dire che manca un approfondimento didattico e la lacuna va colmata. Premetto: rivoluzionerei l’intero ciclo dell’obbligo, stante la maggior precocità del bambino. Inizio a cinque anni dopo una scuola dell’infanzia fortemente raccomandata, un quinquennio ludico incentrato sull’intuizione, la sperimentazione, la spontaneità, la creatività. Imparare giocando, insomma, per aiutare l’alfabetizzazione, l’apprendimento alle lingue straniere e un approccio a tutte le “educazioni”. Poi, dai 14 ai 18 anni superiori sia professionalizzanti che liceali e dai 16 anni forte alternanza scuola/lavoro o scuola/università, che dopo aver imparato occorre saper fare.
Nel mezzo, tuttavia, servirebbero non tre, ma quattro anni di scuola media. Una palestra, un ginnasio. Per farci cosa? Intanto, questa è l’età più delicata per l’evoluzione da bambino a adolescente. È la fase, dopo i 10 anni, in cui si va formando la capacità di organizzazione razionale e di pensiero logico-deduttivo, nonché la curiosità verso spazi e tempi ignoti. È anche la fase di maggior intensità emozionale, di tempeste affettive e ormonali, di presa di coscienza di valori. Un’età difficile e molto seria.
Parliamo di contenuti: anzitutto niente di ripetitivo dalle elementari, ma approcci nuovi e angolature diverse. Ad esempio, è il momento per esplorare il passato e il pianeta, per decodificare e codificare i linguaggi, per maturare sensibilità alle arti, per addentrarsi nelle leggi della matematica, della biologia e della fisica, per conoscere il funzionamento del proprio corpo (sessualità compresa), per imparare il rispetto dell’ambiente e i codici di comportamento a cominciare da quello stradale. Per approfondire le lingue con acquisizione di certificazioni e possibili scambi con paesi europei.
In quattro anni c’è tempo per affrontare tutti questi argomenti incoraggiando spazi di curiosità, di nuove ideazioni. E mai più un solo programma per tutti. Ogni anno (o semestre) ogni programma sia modulato su tre livelli: di base per la media degli studenti; di sostegno e recupero per chi è in difficoltà; di eccellenza per chi emerge. Infatti ognuno riceva tutto quanto può recepire, ma siano individuati e coltivati precocemente i talenti, a cui fornire opportunità su misura affinchè possano eccellere e rendersi utili al più presto a sé e alla comunità.
I due aspetti più qualificanti sono di metodo e didattica. Il primo è un tempo pieno già collaudato alle elementari, obbligatorio, non solo (ma certamente anche) servizio sociale alle famiglie; non certo un doposcuola, né uno spazio protetto dedicato a attività varie più o meno interessanti. E’ un tempo scolastico che non è più solo studio ma vita completa articolata su 8-9 ore: si mangia insieme, si fanno attività sportive, si discute, si riflette, si impara a essere comunità. A mio avviso il tempo pieno è un cardine assoluto, una chiave di volta. Da completare con un altro cardine assoluto: il mutuo insegnamento. Quando se ne parla, il pensiero corre a Don Milani, ma è una pratica molto antica e allo stesso tempo moderna, conosciuta anche come “peer education” o “cooperative learning”. Uno strumento pedagogico semplice e contemporaneamente rivoluzionario, basato sulla centralità dello studente protagonista del proprio apprendimento e sul concetto che il sapere ha senso solo se condiviso. Uno strumento che ha solo effetti collaterali positivi: favorisce una competitività collaborativa e non arrivista; contrasta l’arroccamento; stimola lo sforzo a comunicare in modo chiaro (un conto è conoscere, un altro trasmettere la conoscenza); aumenta la coesione sociale; abitua al team work che, nel mondo del lavoro, è prassi quotidiana. E’ pure economicamente conveniente perchè contiene il numero di docenti necessario per un lavoro individualizzato, e quindi i costi.
Certo, il docente non è più il detentore del sapere, ma il maieuta che coinvolge gli alunni più grandi e preparati affinchè sentano la responsabilità di spiegare ai compagni più piccoli o in difficoltà. Non è compito semplice coordinare un processo dinamico di questo tipo, non è la lezioncina cattedratica, il “maestro” deve esserci “tagliato” e sentirla come vera e propria “vocazione”, deve inoltre ricevere una formazione adeguata in questa direzione, insomma deve trattarsi di uno sforzo comune e bisogna crederci. Ma l’obiettivo è grandioso: un futuro dove chi sta crescendo prende l’impegno di sperimentare nella sua vita un monito senza tempo che Don Milani rese suo motto: “I care”.
*ex insegnante di scuola media