Nel weekend si è riaccesa sui media specializzati e nei blog economici la polemica sulle remunerazioni principesche dei top manager. La miccia è stata la notizia che Bill Gross e Mohamed A. El-Erian, il numero uno e il numero due di Pimco, una delle società di gestione più grandi al mondo (gestisce circa 2 miliardi di dollari) posseduta dal colosso assicurativo tedesco Allianz, hanno ricevuto nel 2013 un compenso di 290 milioni e 230 milioni, rispettivamente. Il bello è che nel 2014 entrambi non lavorano più per Pimco.
Il caso di Bill Gross è particolarmente interessante. E’ sotto inchiesta da parte della Sec per una serie di reati finanziari e, non appena ha lasciato Pimco si è messo a lavorare per la concorrenza. Volendo guardare ai “risultati”, il suo fondo Total Return Bond ha fatto peggio della media di categoria a 1 anno, 3 anni e 5 anni. Si potrebbe discutere a lungo sul valore aggiunto che creano i gestori attivi – molti premi Nobel per l’economia investono nell’esatto contrario della gestione attiva, sostenendo che nessuno è in grado di “battere” in misura consistente il mercato e quindi non ha senso pagare commissioni elevate per una “mission impossible” – ma la questione cruciale della vicenda di Bill Gross è relativa alla remunerazione dei top manager e collegare questa vicenda al tema più generale della deriva dinastica che sta prendendo il capitalismo finanziario del nuovo millennio.
Si tratta di una ferita aperta che, negli Usa, la patria del liberismo, brucia ancora più che da noi. Negli States, infatti, esiste la consapevolezza che gli eccessi nelle retribuzioni dei top manager siano tipici di una società decadente: ad esempio, mentre veniva annunciato il sorpasso della Cina rispetto agli Usa, i giornali riportavano il record dei record dei bonus, 300 milioni, per il Ceo di Ford. Dall’altro, tuttavia, si sta sbriciolando la convinzione che il libero mercato sia da solo in grado di correggere comportamenti eticamente devianti ed economicamente inefficienti.
Piketty, l’economista francese autore de “Il capitale nel XXI secolo”, il libro che è al centro del dibattito economico e politico negli Stati Uniti, attribuisce anche alla figura dei super-manager l’aumento della diseguaglianza nei paesi occidentali. E il caso delle retribuzioni principesche dei super-manager è una chiara dimostrazione del fatto che la diseguaglianza ha ben poco a che vedere con il “merito”. Le aziende non sono diventate più produttive o più innovative di quanto non lo fossero 30 o 60 anni fa. Al contrario. Basta mettere a confronto la remunerazione di Scaroni con quella di Mattei, la remunerazione di Geronzi con quella di Mattioli, la remunerazione di Marchionne con quella di Valletta e mettere poi a confronto i risultati ottenuti per capire che non esiste alcuna relazione con il merito effettivo. Lo stesso vale per gli Stati Uniti e per gli altri paesi europei.
Bisogna ovviamente distinguere tra imprenditori e “top manager. Se infatti esiste una maggiore accettazione sociale nei confronti della ricchezza accumulata dagli imprenditori, la tolleranza è minima nei confronti dei manager privati. Agli imprenditori si riconosce infatti una capacità di rischiare anche personalmente e un mix di doti (tecniche e umane) fuori dal comune. Dietro il “miracolo” di una nuova impresa c’è il “miracolo” di un nuovo prodotto o di un nuovo servizio e quindi si tocca con mano la forza creativa e generatrice dell’imprenditore. Inoltre, nel caso dell’imprenditore le fortune si concretizzano nel valore della propria azienda, al cui destino rimane vincolata la vita dell’imprenditore. Viceversa, nel caso dei top manager il rischio personale è estremamente limitato. Nessuno di loro, ad esempio, ha mai impegnato la propria abitazione per pagare i fornitori o tranquillizzare le banche. Al contrario, le loro fortune si accumulano nel momento in cui lasciano l’azienda. Spesso diventano ricchi nel momento in cui l’azienda soccombe e viene acquisita da un competitor. Mentre per Bill Gross è naturale licenziarsi da Pimco e il giorno dopo andare a lavorare da Janus, è impossibile immaginare Bill Gates lasciare Microsoft per andare a dirigere la Apple.
Il grosso errore degli economisti aziendalisti – perlomeno di quello che non hanno mai messo piede in una azienda – è quello di pensare che le strategie a brevissimo termine siano da attribuire agli azionisti. Nulla di più sbagliato. Guadagnando così tanto, per i top manager l’importante non è il lungo periodo. Bastano pochissimi anni per arricchirsi e trasformare la propria famiglia in una “dinastia” di nullafacenti che potranno vivere alle spalle della comunità generazione dopo generazione.
Quanto valgono 300 milioni di dollari in termini “dinastici”? Ipotizzando che la dinastia abbia un tasso di fertilità medio (2 figli a coppia), che il tasso di crescita dei salari sia lo stesso del tasso d’interesse sul patrimonio, che gli eredi siano degli assoluti nullafacenti che si limitano a prelevare dal patrimonio una cifra pari a due volte il PIL pro-capite USA (27.000 US$) e quindi ogni famiglia – quattro componenti – si conceda un decoroso tenore di vita annuo di poco superiore ai 200.000 dollari annui – il 95mo percentile, pari a circa 4 volte il reddito di una famiglia media americana – dovremo aspettare l’anno 2164 (quindi 150 anni) prima che i centosessanta eredi si debbano rimettere a lavorare per guadagnare la pagnotta. Se, invece, il tasso di fertilità fosse pari a uno, ci vorrebbero oltre mille anni per prosciugare il tesoretto del loro avo.
È evidente il rischio che corre un sistema socio-economico dove la selezione del più “forte” viene indebolita dalla creazione di dinastie. Il mercato deve consentire al più “forte” di prevalere economicamente ma il sistema politico deve fare in modo che ogni generazione mantenga intatto l’incentivo a competere, limitando quindi la possibilità per i più “forti” di interferire con i meccanismi di selezione attraverso l’accumulazione di ricchezze spropositate che consolidino le posizioni relative per i loro discendenti, indipendentemente dalla bravura.