Tirato a lucido – forse per la prima volta nella mia vita – aggiro il Teatro alla Scala per entrare da via dei Filodrammatici e sento in lontananza le urla della sommossa dei centri sociali: trovandomi al di là della manifestazione, la possibilità di essere considerato l’ideale bersaglio della protesta, borghese privilegiato, costruisce un’ideale cornice cinematografica per il mio ingresso alla prima della Scala, alimentando con mia grande soddisfazione l’hype della serata. Tutto è pronto: mi atteggio a giovane collezionista d’arte mentre passo attraverso il solito corridoio di giornalisti e fotografi – che non mi considerano minimanente – e, prima di ascoltare la più grande delle opere che mescola libertà e amore abbandono definitivamente i moralismi di chi condanna tanta mondanità (o la sua decadenza) e quasi dimentico Beethoven per lasciarmi affascinare dagli abiti esagerati, dagli abbondanti chignon addobbati come bonsai di Natale, dai visi lucidissimi e dai sorrisi brillanti di luce propria. Non c’è nessuna ironia: alla mia prima alla Scala deve essere tutto com’è in televisione. Leggo che quest’anno ci sono meno vip, ma per incantarmi come Cenerentola al ballo è bastato specchiarmi sulle labbra della Marini, inciampare imbranato sulle scarpe di Dario Franceschini mentre twittavo un immancabile selfie e riconoscere Giorgio Armani troppo tardi per condividere una sua istantanea con tutte le melochecche della mia rete. Grandi assenti, Napolitano e Matteo Renzi: siedono nel palco reale Pisapia, Maroni e Franceschini, mogli annesse. Dal mio palco, decisamente più laterale, getto uno sguardo felice sul teatro prima che la spettacolo abbia inizio.
L’ingresso di Daniel Barenboim nella buca è accolto da un fragoroso applauso: è il suo ultimo anno di direzione al Piermarini e per l’occasione non manca di eseguire il tradizionale inno italiano, in barba alle scelte anticonformiste di Muti che nel 1999 evitò il Mameli – ne fu contrariato Ciampi – poiché il sound incompatibile con Beethoven, a suo dire, avrebbe deconcentrato l’orchestra. Eppure, l’orchestra di Barenboim non sembra affatto deconcentrata per questa prima di Fidelio: sin dall’ouverture (la seconda delle quattro composte dal maestro di Bonn) emerge tutto l’amore del direttore argentino per il compositore della Quinta e della Nona Sinfonia ed esegue – a memoria – l’opera, facendo della musica la più imponente protagonista della serata.
Daniel Barenboim (foto Livio Giuliano)
Leonore (Anja Kampe) si finge uomo, Fidelio, e si fa assumere dal carceriere Don Rocco (Kwangchul Youn) per liberare il marito Florestan (Klaus Florian Vogt), vittima delle vendette personali del governatore Don Pizzarro (Falk Struckmann). A causa dell’imminente arrivo del ministro Don Fernando (Peter Mattei), per nascondere l’iniquità della carcerazione di Florestan, Pizzarro ordina a Rocco di scavare la fossa al prigioniero che avrebbe ucciso personalmente: impedendo eroicamente l’omicidio del marito inerme e affaticato dalla prigionia, Leonore rivela la propria identità di fronte agli sguardi attoniti dei presenti. La sorpresa offre il tempo a Don Fernando di giungere presso la prigione e punire Pizzarro per l’ingiustizia commessa. La vicenda, carica di riferimenti all’allora recente rivoluzione francese (Beethoven inizia a comporre Fidelio nel 1803 e chiude la sua terza e ultima revisione nel 1814), trae ispirazione da un’opéra-comique, un genere di melodramma francese che mescola parti recitate e numeri cantati, corrispettivo oltrerenano del singspiel tedesco. Storie di eroi in trappola salvati per amore infettano la letteratura operistica tra Sette e Ottocento, disseminando in Europa la moda dell’opéra a sauvetage all’interno di un contesto, quello post-rivoluzionario, assai sensibile ai temi della prigionia e della libertà.
Il pubblico in piedi per l’inno di Mameli (foto Livio Giuliano)
Le scene, disegnate da Chloe Obolensky, spostano la vicenda dal Seicento spagnolo del libretto a una prigione dei giorni nostri: Leonore veste una tuta da operaio; Jaquino (Florian Hoffmann), il custode, sembra un diciottene, con la sua felpa, le Converse ai piedi e con il trasporto tipico delle commedie mozartiane con cui ama Marzelline (Mojca Erdmann), la figlia di Rocco, innamorata a sua volta di Fidelio. Laddove ci doveva essere un carcere, vediamo un grande capannone di cemento. Eppure, la regia attualizzante e i costumi grezzi non disturbano: i grandi temi dell’opera, l’amore e la libertà, sono facilmente ricollocabili in tutte le epoche, perché universali – ci suggerisce la regista Deborah Warner.
Nonostante ciò, pare talvolta che i personaggi lascino alcune azioni incompiute, non veicolando pienamente l’idea trasmessa dal testo: per esempio, mentre Rocco canta con grande abilità la sua aria comica consacrando il futuro matrimonio tra la figlia Marzelline e Fidelio, questi riprendono inspiegabilmente le faccende domestiche, lasciando il padre a se stesso mentre elenca vantaggi emotivi ma soprattutto svantaggi economici del matrimonio.
Gli applausi per Daniel Barenboim (foto Livio Giuliano)
Delude, inoltre, vedere l’eccessiva distanza che separa Florestan e Leonore quando i due, in prossimità della fine, cantano soli la gioia di essersi rincontrati, ai due angoli opposti del palcoscenico – e mi chiedo perché tante fatiche per liberare un uomo che stenta ad abbracciare. Che non sia l’amore tra i protagonisti il centro della regia della Warner? Sorge un dubbio. Nel giubilo generale del finale in cui il coro esalta il coraggio di Leonore, l’attenzione del pubblico è trasferita sulle figure (quasi) mute di Marzelline, delusa perché l’uomo di cui è innamorata è in realtà una donna sposata, di Jaquino le cui tenere attenzioni sono respinte da Marzelline, e di Rocco, che mosso a pietà per un attimo dalla tristezza della figlia torna quasi insensibile ai cori esultanti per il coraggio di Leonore: dopo due atti in cui attendevamo la festosa liberazione di Florestan, il sipario si chiude sull’amara fuga della figlia del carceriere tra la folla in festa.
A fronte della regia di Deborah Warner che ha voluto escludere dall’opera non solo il contesto storico, ma anche questi tratti del libretto che risultavano vincenti all’epoca della sua composizione – elementi imprescindibili dell’esuberante poetica romantica di Beethoven – è la musica diretta da Barenboim a fungere da commento e reinserire l’esorbitante spirito del maestro tedesco negli spazi lasciati vuoti dalla regista: talvolta la presenza musicale soverchia le voci e l’azione tanto da indurre a pensare che certa immobilità sia studiata ad arte per lasciar affermare la musica.
Accanto a prove attoriali e canore di primo livello – convince un po’ meno l’interpretazione di Klaus Florian Vogt nei panni di un Florestan dalla voce limpida dove avrebbe dovuto dar dimostrazione di toccante debolezza, meravigliosamente coinvolti nel ruolo Yon, Struckmann e la Kampe, abile attrice e cantante, al suo secondo Fidelio con la Warner – la regista accantona parzialmente i valori paradigmatici incarnati dai due protagonisti ed espressi dalla musica per lasciare un po’ di spazio alle luci e alle ombre del tutto umane dei personaggi più umili: i tornaconti di Rocco, i sentimenti veraci di Jaquino, le delusioni di Marzelline e i loro fallimenti. Così, la dialettica che nella musica strumentale di Beethoven emerge tra i temi di una sonata o tra i movimenti di una sinfonia viene trasposta nel suo teatro nel conflitto tra la scena e la musica stessa, i due veri grandi protagonisti del Fidelio d’inaugurazione di questa stagione della Scala.
Gli applausi a orchestra e interpreti (foto Livio Giuliano)
Dodici minuti di applausi sanciscono l’esito positivo di una prima che agli occhi di molti compensa il fallimento di quella Traviata uccisa dagli psicofarmarci un anno fa. Nemmeno per le ultime due apparizioni di Fidelio alla Scala furono risparmiate le aspre critiche: nel 1999 con Riccardo Muti e Werner Herzog alla regia, nel 1990 con Lorin Mazeel e Giorgio Strehler. Non è facile, infatti, soddisfare il pubblico del Piermarini con un’opera tanto tedesca, non solo nella lingua, ma anche nelle ambizioni, nelle proporzioni e nel messaggio universale. Eppure, l’esagerazione dei fischi dei loggionisti o le clamorose approvazioni degli incontentabili critici chiudono ogni anno il cerchio su un evento, la Prima alla Scala, che non può vivere di sola opera, ma che per acquisire le giuste proporzioni ha bisogno di giudizi efferati, contestazioni politiche, ostentata mondanità, diretta televisiva sulla Rai, tanta pubblicità, luci, abiti e gossip, un coacervo di ingredienti che rischia di oscurare il cuore della serata, l’opera stessa, che tuttavia, contrariamente alle contingenze di ogni singolo spettacolo, sopravvive granitica nei secoli.