Caso Nisman, terrorismo di stato o campagna mediatica?

Caso Nisman, terrorismo di stato o campagna mediatica?

Gli argentini sono stati abituati a scendere in piazza per rendere manifesta la propria rabbia e il proprio sdegno armandosi di casseruole e mestoli e dando vita ai cosidetti cacerolazos, ma lunedì hanno preferito usare striscioni con la scritta «Yo soy Nisman».

Alberto Nisman era il procuratore federale che aveva annunciato di voler processare la presidenta Kirchner e altri membri del suo governo per aver insabbiato prove nel processo AMIA, uno dei più grandi misteri della storia del paese.

Nisman è stato trovato senza vita nella sua abitazione di Puerto Madero, un quartiere residenziale e chic di Buenos Aires, la mattina di lunedì 19 gennaio, con la porta chiusa dall’interno. Nonostante questo elemento faccia ipotizzare il suicidio, il guanto di paraffina ha escluso che l’uomo si sia tolto la vita con la pistola ritrovata nell’appartamento.

Negli ultimi giorni è trapelato tuttavia che gli inquirenti siano intervenuti in modo approssimativo, inquinando probabilmente la scena del delitto e sottovalutando indizi cruciali (ora sembra che la porta fosse aperta). Si tratta quindi di suicidio o omicidio strumentale? I dubbi aumentano e confondono addirittura la presidenta stessa, che in meno di 24 ore ha cambiato opinione sul caso.

Ma a cosa stava lavorando Nisman di così scottante?

Il 18 luglio 1994 un’autobomba esplode nel parcheggio seminterrato della AMIA (Asociación Mutual Israelita Argentina) a Buenos Aires, mietendo ottantacinque vittime e trecento feriti in quello che sarà ricordato come il maggior attentato contro una comunità ebraica in Sudamerica.

Dalle indagini emerge che l’intento fosse di punire l’allora presidente Carlos Menem, reo di aver cancellato un accordo che avrebbe trasferito tecnologie nucleari all’Iran. I responsabili dell’atto di violenza vengono individuati come membri di Hezbollah e i giudici, per individuarne i mandanti, risalgono fino ai vertici iraniani.

Tra questi figurano l’ora ex presidente Ali Akbar Hāshemi Rafsanjāni, due ex ministri, il capo dell’intelligence e due funzionari. I giudici argentini sottolineano come le milizie sciite guidate dal libanese Imad Fayez Mughniyeh (capo della sicurezza di Hezbollah, assassinato nel 2008) avessero agito seguendo precisi ordini da Teheran e chiedono che i responsabili vengano portati a Buenos Aires per un processo.

Le difficoltà non mancano sin dal principio, dato che l’estradizione non è contemplata nell’ordinamento iraniano, e così il caso non vede mai la luce fuori da un tunnel caratterizzato da scomparsa di prove, nuove piste e colpi di scena, come quando lo stesso Menem viene coinvolto nel caso per aver avviato rapporti con Hafiz al-Asad al fine di riciclare denaro siriano proveniente dal traffico di droga. Si aprì così l’ipotesi di un complotto siriano dietro i fatti del 1994 e del 1992 (anno in cui fu colpita l’ambasciata israeliana a Buenos Aires, da un commando agli ordini di Mughniyeh).

Nel tentativo di dare una scossa alle indagini, nel 2004 Néstor Kirchner pone a capo del caso AMIA proprio Alberto Nisman, ma la situazione non migliora, anzi ancora restano poco chiare le motivazioni che spinsero a colpire proprio il centro ebraico: un’ipotesi credibile è che fosse una ritorsione nei confronti di Menem stesso, che disattese la promessa di visitare la Siria (la terra di origine della sua famiglia) come prima meta da presidente, preferendole Israele.

Nel 2013 la moglie di Néstor va a trattare direttamente con l’Iran un memorandum d’intesa tra i due paesi, per creare una commissione formata da cinque giuristi internazionali (di nazionalità diversa da quella argentina e iraniana) e poter interrogare i sospettati, ma il Majles – il parlamento iraniano – non ratifica l’accordo e il poder judicial argentino lo bolla addirittura come incostituzionale, lasciando ancora la questione nel limbo.

Il fiscal Nisman sosteneva di avere in mano documenti e registrazioni tali da incastrare elementi del governo e alcuni agitatori peronisti per aver fabbricato le ennesime prove false al fine di rimuovere ogni sospetto e responsabilità dagli imputati iraniani.

Tutto questo al fine di favorire le attività commerciali tra i due paesi, al rallentatore proprio a causa degli avvenimenti del 1992 e del 1994. Nisman era pronto a render conto al Parlamento di quanto in suo possesso, sostenendo che il ministro degli Esteri Héctor Timerman avesse proposto all’Iran di far decadere le accuse verso i suoi cittadini in cambio di canali commerciali preferenziali e forniture di greggio a prezzi di cortesia.

Per il procuratore, Cristina Kirchner avrebbe avallato l’operazione atta a fabbricare prove false per scagionare gli iraniani, ma la donna, tramite il suo account Facebook, ha risposto alle accuse sollevando dubbi sulle buone intenzioni di Nisman.

Il capo dello stato esprime perplessità sulle motivazioni che hanno spinto un membro della magistratura a dare a Nisman una calibro 22, alimentando l’ipotesi di un suicidio indotto, e si dice inoltre esterrefatta dalle accuse mosse contro di lei, dato che ritiene di essersi battuta proprio per fare luce sul caso AMIA e non per insabbiare prove.

La presidenta non si risparmia e rincara la dose contro i suoi detrattori, insinuando che il procuratore sia stato usato dai suoi oppositori politici, in primis il quotidiano El Clarín che avrebbe approfittato del fatto per etichettare l’accaduto come terrorismo di Stato.

È d’obbligo segnalare che le 300 pagine del dossier in possesso di Nisman si basavano perlopiù su fonti non ufficiali e soffiate del Mossad e del ministero degli esteri israeliano, il Misrad HaHutz, molto coinvolti e di conseguenza poco obiettivi.

Desta stupore anche il fatto di veder coinvolto proprio il ministro Héctor Timerman, giornalista, attivista per la Asamblea Permanente por los Derechos Humanos (una ONG per la difesa dei diritti umani nata sotto l’ultima dittatura) e soprattuto ebreo; è difficile credere che il diplomatico abbia preferito trattare l’impunità con uno stato arcinemico di Israele quale l’Iran, a scapito delle famiglie delle vittime del 1994.

L’ipotesi che, conscio di esser stato usato dall’opposizione antikirchnerista e di non avere in realtà prove sufficienti a porre sotto processo la presidenta, se non solo alcuni agitatori del suo partito, il procuratore si sia suicidato potrebbe essere una interessante chiave di lettura che, se confermata, surriscalderebbe lo scontro in atto per accaparrarsi la poltrona della Casa Rosada. Le elezioni in Argentina sono previste per il prossimo ottobre e lo scontro tra Cristina Kirchner e i suoi detrattori promette di far cadere teste illustri.

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