In collaborazione con il sito State of Mind
Non so quando precisamente il cibo sia entrato a far parte della cultura di massa ed è diventato un oggetto di culto popolare, cult e pop. Più che le ricette in sé forse furono importanti i libri di ricette che diffusero il sapere dalle cucine aristocratiche a quelle borghesi. Oppure certi segnali, come le frasi celebri. Forse prima di Oscar Wilde a nessun letterato sarebbe venuto in mente un aforisma su quanto sia importante il cibo e, soprattutto, quanto siano irrimediabilmente noiosi quelli che non prendono sul serio il cibo. Wilde stava seminando il terreno delle foto di piatti disseminate sui social. Non sono un esperto di storia delle idee, ma ho l’impressione che il cibo è diventato “borghese” nell’800 e “pop” negli anni ’80 del secolo scorso.
Forse la stessa cosa è accaduta ai disturbi psicologici legati al cibo. Nell’ottocento la cultura medica “borghese” li individua e li definisce. Nel 1873 il medico francese Charles Lasègue, riportò otto casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, e pose grande enfasi sulla sofferenza emotiva dei pazienti. In quello stesso 1873 a Londra William Gull descrisse tre casi e li denominò per la prima volta con il termine che poi si sarebbe universalmente affermato: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, in Italia a Bologna Giovanni Brugnoli descrisse altri due casi.
Dopo queste prime segnalazioni si assiste a un silenzio prolungato per alcuni decenni, in cui si cercano spiegazioni neurologiche per questi disturbi. A ridosso degli anni ‘80 Hilde Bruch (1973) e Mara Selvini-Palazzoli (1963) riaffermano la natura psicologica dei disturbi alimentari e li descrivono come un paralizzante senso di inadeguatezza e di insufficienza di fronte agli impegni della vita adulta a cui si unisce la restrizione alimentare come surrogato illusorio di quel carente senso di competenza, efficacia e autonomia personale di queste pazienti. Ancor più chiaro il legame della bulimia con gli anni ’80. Questa sindrome è stata definita nel 1979 dallo psichiatra inglese Gerald Russell.
È negli anni ’80 del ’900 che anoressia e bulimia entrano a far parte della cultura di massa e diventano un oggetto quasi pop di campagne pubblicitarie di sensibilizzazione. Fino a quel momento si trattava di curiosità psichiatriche da circo, stramberie simile alle isteriche del maestro di Freud, il professor Charcot della Salpetrière di Parigi. Poi improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e soprattutto assunsero un valore simbolico. Che trasformazione! Da residuo polveroso della psichiatria ottocentesca a malessere psicologico legato al consumismo degli anni ’80.
Il rifiuto del cibo dell’anoressica sembra una negazione di sé. Non è così
Quegli anni – ricordate? – furono il tempo del ritorno al privato e di un rinnovato edonismo. Cambiati i valori, improvvisamente l’ideale non era più rinnovare il mondo ma affermarsi personalmente, realizzarsi. Le professioni economiche diventarono appetibili. Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena e si impadroniva del film “Wall Street” di Oliver Stone. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale prendeva possesso dell’immaginario pubblico.
Breve annotazione: cosa s’intende per anoressia e bulimia? La prima è la repulsione volontaria e ossessiva nei confronti del cibo generata da un intenso timore di poter diventare grassi o addirittura dalla convinzione erronea di essere sovrappeso. La bulimia è invece contraddistinta da episodi di abbuffate (consumo rapido di abbondanti quantità di cibo a elevato contenuto calorico) accompagnati da comportamenti di compenso, tra i quali il più diffuso è il vomito autoindotto, oltre all’uso smodato di diuretici e lassativi, il digiuno e l’attività fisica eccessiva. Il fine di questi comportamenti è attenuare il senso di colpa e l’aumento di peso procurati dall’abbuffata.
L’associazione d’idee tra edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è intuitiva. Il rifiuto del cibo dell’anoressica sembra piuttosto una negazione di sé. Eppure non è così. Anoressia e bulimia sono tentativi di affermazione di sé nel campo del controllo del cibo e dell’aspetto fisico. I disturbi alimentari iniziano per lo più al limitare dell’adolescenza, quando si entra in un mondo sociale e competitivo di giovani adulti, dove occorre conquistare l’attenzione e la considerazione altrui. La giovane età ci rende particolarmente sensibili al giudizio altrui e ai piccoli e grandi dispiaceri delle competizioni di rango imposte dalla vita sociale. A quell’età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è incisivo e per le donne lo è ancor di più. Il timore di non riuscire ad affermarsi, il timore di essere socialmente invisibili può generare il desiderio parossistico di aderire a un ideale fisico accettato, come è la magrezza, fino alle forme grottesche dell’estremo sottopeso dell’anoressia o al continuo vomitare quel che si mangia nella bulimia. Salvo poi riempirsi di nuovo di cibo quando si è in preda alla fame e all’insicurezza. Il cibo è fonte di angoscia, ma anche di consolazione. Mangiare ci calma, abbuffarci ancora di più.
L’individuo così cade preda di convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattative e distorte: la convinzione di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancora peggio, di non avere il controllo dei propri stati d’animo e delle emozioni, che appaiono assumere un carattere di intensità ingestibile (Sassaroli e Ruggiero, 2010).
In passato pochi potevano permettersi il lusso oppositivo dell’astinenza dal cibo. Quando avveniva, assumeva un carattere religioso
I disturbi alimentari diventano simbolici di questa svolta culturale individualistica e “pop” non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma ancor di più per alcuni temi psicologici più nascosti: l’ossessione per il controllo sulla realtà e per la perfezione dello sviluppo individuale e la centralità della cosiddetta autostima personale su cui fondare il proprio benessere.
Nelle epoche pre-industriali, aristocratiche e non consumistiche, questi fenomeni non erano assenti, ma assumevano significati diversi. Eppure con alcune consonanze con la modernità risuonano. In un’economia di sussistenza pochi avevano accesso al consumismo alimentare che permette il lusso oppositivo dell’astinenza dal cibo. E quando avveniva, essa assumeva un carattere religioso, come nel caso di Santa Caterina. L’astinenza dal cibo della santa aveva un valore di rinuncia, di mortificazione e di autodisciplina.
Nella santa medievale mancava il carattere di affermazione individualistica della moderna anoressia. Però è anche vero che nelle sante medievali l’astensione dal cibo era una componente di una scelta religiosa ampia e complessa che consentiva alle donne un ruolo sociale incisivo. Santa Caterina poté, grazie alla rinuncia al mondo, sottrarsi al matrimonio e attingere a una formazione culturale che altrimenti le sarebbe stata preclusa. Imparò a leggere e a scrivere e poté svolgere un ruolo sociale e politico di primo piano nella società del tempo. Partecipò a missioni diplomatiche presso la sede papale, contribuendo a far sì che il Papa tornasse a Roma da Avignone. Tutto questo può essere interpretato, in termini moderni, come segno di affermazione personale per Santa Caterina (Bell, 1985).
Tuttavia in Caterina e in altre donne l’astensione dal mondo era un percorso efficace, che effettivamente portò le sante ascetiche medievali a diventare delle personalità di primo piano. Nell’anoressia moderna il desiderio di autonomia e di affermazione è molto più problematico e contradittorio e molto meno efficace. L’anoressica è al tempo stesso attratta e intimorita dal mondo adulto delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé. Incapace di accettare e di gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, va alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un parametro quantificabile. Il peso poi rimanda all’aspetto corporeo, naturalmente. E non si tratta affatto soltanto di un rimando soltanto simbolico. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere, accettare e giudicare dagli altri e dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, si tratta di una logorante e difficile negoziazione continua con gli altri.
La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che teme l’anoressica. Di qui la scelta paradossale del disturbo alimentare: Il controllo del corpo diventa fine a se stesso, una corsa autodistruttiva in cui lo scopo iniziale, cioè poter essere accettati e piacere agli altri, è dimenticato a favore della magrezza e del controllo, che subentrano e diventano, da soli, un valore in sé.
Bibliografia
Bell, (1985). Holy Anorexia. Chicago: University of Chicago Press. Tr. Italiana: La santa anoressia. Digiuno e misticisimo da medioevo a oggi. Bari: Laterza. 2002.
Bruch, H. (1973). Eating disorders: Obesity, anorexia nervosa, and the person within. New York: Basic Books. Tr. Italiana: Patologia del comportamento alimentare: obesità, anoressia mentale e personalità. Milano: Feltrinelli.
Selvini Palazzoli, M. (1963). L’anoressia mentale. Milano: Feltrinelli.
Sassaroli, S., Ruggiero, G. M. (2010). I Disturbi Alimentari. Bari: Laterza.
Russell, G. (1979). Bulimia nervosa: an ominous variant of anorexia nervosa. Psychological Medicine. 9-429–48.