Sono passati quasi due anni da quando è stata mandata in onda la prima puntata di The Newsroom sulla HBO. Era il giugno del 2012, e la serie scritta e creata dal Premio Oscar Aaron Sorkin venne accolta piuttosto positivamente dalla critica (e dal pubblico), specie per la clip che venne fatta girare in rete a pochi giorni dalla messa in onda: Will McAvoy, anchorman di successo e protagonista dello show Newsnight, interpretato da un Jeff Daniels in stato di grazia, è ospite di un dibattito universitario e alla domanda di una studentessa di giornalismo — «perché gli Stati Uniti d’America sono il più grande paese al mondo?» — non riesce più a trattenersi dopo ammicchi, battute, risposte politicamente corrette, e comincia un lungo, avvincente monologo sul perché gli Stati Uniti non siano il più grande paese al mondo. Non più, oramai.
È stato probabilmente uno dei video più visti in quella settimana di due anni fa su youtube, e ci dice moltissimo delle intenzioni (almeno iniziali) di Sorkin: usare la televisione, e più in generale il giornalismo, come metafora dello stato della società e della politica americana. Gli anchorman — ci spiega Will McAvoy, proprio in quel monologo — sono sempre stati personaggi importanti, carismatici, che hanno adempiuto a una missione fondamentale: informare.
Quando però si è smesso di informare, in favore di altre cose come gli ascolti, la pubblicità, lo showbusiness (e pensare che all’inizio ai network era vietato far passare commercial durante la striscia quotidiana di notizie), l’intero sistema di informazione americano ha finito per collassare su se stesso. La missione dei protagonisti di The Newsroom è tornare a fare giornalismo, tornare a fare informazione e ridare ancora una volta gli strumenti agli americani per pensare, decidere e, soprattutto, votare.
Nel corso delle puntate e delle stagioni, Aaron Sorkin ha dovuto lentamente correggere il tiro. Perché l’entusiasmo iniziale dei media per il suo show si è trasformato nel giro di pochi altri monologhi in sofferenza e criticismo viscerale. Che ne sa — quest’è stato il pensiero più diffuso — uno sceneggiatore di Hollywood di una cosa sacra come il giornalismo? E soprattutto: come si permettete di giudicare?
Vengono messi in onda il difficile sorpasso del web rispetto al giornalismo datato della tv (e dei quotidiani cartacei); la moralità e la deontologia che si immagina debbano avere i giornalisti (specie nelle ultime due puntate della terza stagione, ndr); il conflitto tra il Patriot Act e il primo emendamento, che negli USA garantisce la libertà di espressione (e quindi tutela il rapporto tra fonte e giornalista, e il lavoro stesso del reporter). E così via discorrendo.
In un arco temporale che copre diversi anni, The Newsroom rivisita, attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, varie vicende veramente accadute, come il disastro ambientale del Golfo o le elezioni americane o l’attentato della maratona di Boston. Insomma, Sorkin prova a calare un sondino nel mondo del giornalismo televisivo per mostrare al pubblico un dietro le quinte inedito, scomodo, che dimostra come “la cosa giusta” sia spesso secondaria rispetto al numero degli ascolti.
C’è tanta creatività, nella scrittura di The Newsroom. E di questo sicuramente bisogna prendere atto. È anche vero che Sorkin piano piano molla la presa, l’abbiamo già detto – la prima stagione, praticamente perfetta in un crescente continuo, lascia spazio alla seconda in cui si parla di terrorismo e di informazione a tutti i costi, delle fonti e del depistaggio. La terza stagione è una conclusione dovuta e doverosa, in cui a stento Sorkin riesce, specie negli ultimi tre episodi, a riportare a galla lo spirito con il quale aveva iniziato la serie.
Osteggiato e criticato, Sorkin ha dovuto prendere delle decisioni non semplici, decisioni sicuramente combattute e che non l’hanno lasciato del tutto entusiasta del suo lavoro, lui che, come sappiamo, è un perfezionista. The Newsroom, quindi, può essere valutato sotto vari e diversi punti di vista. A cominciare, certo, da quello della costruzione e della solidità della struttura narrativa che resiste perfettamente almeno fino alla prima stagione.
È la critica che Sorkin prova a fare al mondo dei media e più in particolare del giornalismo che interessa. E anche la sua non tanto velata critica alla politica e al suo estremismo post-11 settembre (da una parte e dall’altra). Molti argomenti, come il pregnante cattolicesimo del Tea Party, possono sembrare a noi italiani del tutto banali, ma non lo sono per gli americani, che invece tendono a convivere — pacificamente il più delle volte — con uno stato delle cose di cui non sono mai pienamente consapevoli.
Proprio per quell’appunto iniziale: con il tempo è cominciata a mancare la “vera” informazione (e almeno in questo, condividiamo il loro destino). E lo dimostrano anche altre opere del panorama contemporaneo del cinema e della tv, come The Nightcrawler con Jake Gyllenhaal, “datemi sangue, datemi primi piani”.
Insomma, Sorkin ha iniziato con l’attaccare un sistema intero direttamente, senza girarci attorno; poi, di colpo, ha preso una curva che non sembrava finire più, facendo perdere lo spettatore e faticando a raccogliere di nuovo i consensi iniziali. E alla fine, in extremis, ha recuperato sul sentiero principale. Difficile capire cosa, effettivamente, sia successo. The Newsroom resta comunque una delle serie tv più interessanti e — sotto un certo punto di vista — innovative degli ultimi anni. Specie per la costruzione dei suoi dialoghi, dei botta e risposta semplicemente incredibili, in cui tutti tengono testa a tutti (una redazione di pozzi di scienza, quella del programma di Will McAvoy); dove storie d’amore nascono con la stessa facilità con cui l’erba spunta nel giardino dietro casa; in cui la missione dei protagonisti viene associata — in più di un’occasione — a Don Chisciotte e alla sua lotta senza speranza contro i mulini a vento.
Perché credere di essere, prima ancora di esserlo effettivamente, un giornalista è la cosa più difficile. La più importante, quella fondamentale. Il resto è (quasi?) secondario.
Sorkin sembra anche segnare un confine invalicabile oltre cui un giornalista, chiunque egli sia, non dovrebbe mai spingersi: protezione delle fonti, certezza del pluralismo; storie verificate e mai di parte, presunzione dell’innocenza e soprattutto chiarezza nell’esposizione.
Una lezione di buon giornalismo che — come detto all’inizio — viene da chi giornalista non è, ed è anzi “solo” uno scrittore cinematografico e televisivo. E forse proprio per questo appare più sincera e più utile di una lezione tenuta da professionisti del settore, più attenti a tutelarsi agli occhi dei non addetti ai lavori anziché ammettere i propri errori e fare ammenda.
Di The Newsroom si finisce per innamorarsi. Dei suoi personaggi, principalmente. A cominciare dal protagonista, Will McAvoy, per finire con Neal (Dev Patel), spunto narrativo dell’intera terza stagione e responsabile del sito web di Newsnight che riesce, nonostante la diffidenza iniziale di tutti i suoi colleghi, ad elevare a qualcosa di più di “banale” blog. Lo rende un punto di riferimento affidabile almeno quanto lo stesso programma condotto da McAvoy. E poi ci sono le situazioni, gli scheletri in cui Sorkin ficca la ciccia dei suoi dialoghi e della sua sceneggiatura: frammenti indimenticabili, faccia a faccia stupendi, a cominciare dal monologo da cui siamo partiti, quello sugli Stati Uniti: un’elencazione quasi infinita, uno scioglilingua di numeri, cifre e materie; premessa, svolgimento, conclusione a ripetizione, in un trittico coinvolgente e logico che lascia lo spettatore a bocca aperta. Tutte queste cose, nel corso delle tre stagioni, perdono di ritmo e di forza, ma resistono. Resistono quanto basta per trascinare il pubblico dalla linea di partenza al traguardo di questa incredibile corsa.
In definitiva: The Newsroom è la serie perfetta? No. È una metafora, anch’essa, di quello che la tv e la società potrebbero essere. È una serie tv che poteva fare molto di più e che forse ha fatto poco, ma che ha sicuramente regalato bei momenti ai propri spettatori. E che, ancora più certo, mancherà a chi l’ha seguita con attenzione nel corso di questi anni.