Accordo Italia-Svizzera: non chiamatelo scudo fiscale

Accordo Italia-Svizzera: non chiamatelo scudo fiscale

L’accordo con la Svizzera è molto più che uno “scudo fiscale”. Certo, se la voluntary disclosure dovesse ripetere il successo degli “scudi” dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, sarebbe più che comprensibile l’entusiasmo del Premier all’indomani della firma dell’Accordo fiscale con la Svizzera («tornano miliardi di euro nelle casse dello Stato!»). Ma non c’è solo quello. Lo scambio automatico di informazioni tra autorità fiscali italiane e svizzere si basa sullo schema del Fatca, ideato e voluto dagli Usa per combattere i paradisi fiscali. L’obiettivo dell’Accordo non è quindi (solo) quello di sanare il passato, come con gli “scudi”, ma di porre le basi per sanare il futuro. E proprio al futuro il Governo dovrebbe guardare per interpretare al meglio la partita con la Svizzera che inizia (e non finisce) con la firma dell’accordo.

Guardare al futuro è importante soprattutto per capire i rischi del posizionamento competitivo dell’Italia in un mercato dei capitali e della gestione della ricchezza sempre più globalizzato e trasparente. Senza una riforma del settore finanziario e della sua regolamentazione, l’ingresso della Svizzera nei paesi white list rischia di trasformare la vittoria “fiscale” in una Caporetto “industriale” per il settore del wealth management nostrano. Perché, quando cade un muro, non è detto che siano gli ex-assediati ad aver bisogno di protezione. Bisogna chiedersi, in altre parole, come fare a mantenere in Italia l’industria del wealth management nel momento in cui le private bank svizzere potranno avere libero accesso ai risparmiatori italiani.

Il wealth management è un settore strategico per il futuro dell’Italia non solo perché è uno dei pochi sostegni su cui si regge la redditività delle banche, ma anche perché è una garanzia che il frutto delle conoscenze e della laboriosità delle nostre genti venga investito almeno in parte e nei momenti più duri a sostegno del nostro paese. Cosa sarebbe successo nel 2011 e nel 2012 se i nostri risparmi fossero stati affidati a gestori stranieri? Avremmo avuto dei Btp-day promossi dagli operatori bancari ed entusiasticamente fatti propri dai risparmiatori? E non bisogna tralasciare il ruolo del settore finanziario nell’alimentare lavori di qualità, necessari per la tenuta del tessuto connettivo di una metropoli come Milano, che fino a venti anni fa gareggiava con Londra, Madrid, Francoforte e oggi invece si trova addirittura a combattere e soffrire la concorrenza di una piazza come Lugano.

È noto, infatti, che le ragioni del successo di alcune piazze finanziarie definite “paradisi fiscali” non è questione solo di opacità. C’è anche una professionalità che in Italia si trova solo in poche realtà di nicchia. Per non parlare di fattori come la snellezza della burocrazia o la fiscalità più favorevole o la sicurezza di un sistema-paese come quello svizzero che è in grado di “rubare” hedge fund e multinazionali anche a piazze sofisticate e competitive come Londra.

Se l’industria finanziaria svizzera ha capito che il vantaggio competitivo non sta più nell’anonimato, quella italiana saprà pensare al legame perverso tra produzione e distribuzione, tra attività di consulenza e attività di collocamento, che ha così profondamente condizionato (in peggio) la qualità e il costo dei servizi di investimento offerti al risparmiatore italiano? Il Governo avrà la forza di riformare le autorità di vigilanza, distinguendo in maniera netta le funzioni della protezione del risparmiatore e della stabilità finanziaria? 

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