Siamo meno connessi con banda larga, abbiamo prezzi degli abbonamenti più alti, siamo soprattutto tra i meno capaci in Europa a usare i computer e programmare. In questo quadro, che peggiora sempre più, ha senso continuare a investire soldi dell’Agenda digitale in progetti di e-government che quasi nessuno utilizzerà?
La Commissione Europea ha pubblicato il 24 febbraio uno studio sullo stato dell’economia digitale nei suoi paesi membri. L’analisi quantitativa è basata su un insieme di indicatori, il Digital Agenda Scoreboard, disaggregati in cinque domini principali, che hanno l’obiettivo di descrivere le performance relative per quanto riguarda la connettività, il capitale umano “digitale”, l’uso di internet, il grado di integrazione dell’economia digitale e i servizi digitali pubblici disponibili nei paesi membri.
Ogni dimensione citata è poi ulteriormente riassunta da un sotto-insieme d’indicatori specifici. È una metodologia spesso utilizzata in campo economico, soprattutto per studi comparativi fra Stati, per cercare di sintetizzare in modo statisticamente coerente fenomeni complessi e interrelati. L’indicatore sintetico normalizzato ottenuto cerca di riassumere in un numero la qualità e lo stato relativo di un paese rispetto alle media europea. Ebbene, almeno per quanto riguarda questo numero magico, l’Italia non si distingue certo per apertura alla digital economy. Nel ranking appare quart’ultima, prima di Grecia, Bulgaria e Romania.
Gli indicatori della Commisione descrivono una scarsissima penetrazione delle tecnologie d’accesso di punta per le famiglie italiane. Solo il 20,8% ha un accesso ultra veloce Nga, contro il 61% della media Ue
Al di là del numero singolo in sé, che si presta ad essere mal interpretato, la parte interessante dell’analisi risiede nella performance relativa del nostro paese nelle sub-categorie citate. Dall’analisi dei singoli indicatori, si può notare come al “gap tecnico”, laddove con questo termine s’intende il gap di tecnologia di accesso alla rete, si sia via via sommato un divario molto più importante per quanto riguarda le competenze digitali della popolazione in generale, e dei lavoratori in particolare, più difficile da colmare rispetto una mera mancanza d’investimenti fissi in broadband (banda larga). Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, certamente rilevante, gli indicatori della Commisione descrivono una scarsissima penetrazione delle tecnologie d’accesso di punta per le famiglie italiane. Solo il 20,8% ha un accesso ultra veloce Nga, contro il 61% della media Ue. La percentuale di sottoscrizioni per offerte con una velocità di accesso superiore ai 30 Mbps è solo il 2,2% del totale, contro il 22% della Ue. Un abisso in termini di velocità di connessione, che è un parametro fondamentale per la fornitura di pacchetti di servizi fortemente orientati ai dati. In termini di prezzi relativi, un abbonamento per una connessione dati fra gli 8 e i 12 Mbps in Italia costa circa 31 euro al mese a parità di potere di acquisto, contro i 24 della media Ue e i 20 della Germania. Lo scarto di prezzo tende a restare stabile all’aumentare della velocità di connessione, segnalando come le storture all’offerta interessino tutte le tecnologie offerte.
Un abbonamento per una connessione dati fra gli 8 e i 12 Mbps in Italia costa circa 31 euro al mese a parità di potere di acquisto, contro i 24 della media Ue e i 20 della Germania
Questo gap di paradigma tecnologico della nostra economia – come detto – è sempre più riscontrabile anche nelle competenze digitali della popolazione e delle forze lavoro. Il 46% degli individui italiani possiede le competenze digitali basiche necessarie. Solo il 44% ha competenze medie o alte nei computer, contro una media del 50% in Ue e quasi il 60% in Francia, solo per citare un nostro partner. Il 30% dei lavoratori italiani ammette di avere competenze digitali non sufficienti per cambiare lavoro nell’anno di riferimento, contro il 20% della media Ue. Il 9% degli italiani ha almeno una volta nella vita scritto un programma per computer, contro 11% della media Ue, il 15% in Uk o il 25% – strabiliante – di Svezia e Finlandia. Questi indicatori sono calcolati a partire da un framework sviluppato da DG-Connect, piuttosto interessante, dove le competenze digitali sono misurate in domini quali la capacità di reperire informazioni, l’uso delle comunicazioni via web, la creazione di contenuti digitali e il problem-solving dei problemi tecnici che si incontrano normalmente nell’utilizzo di supporti digitali quali Pc, smartphone e tablet. Gli indicatori sono, dunque, una misura il più possibile “reale” delle competenze delle persone.
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Il 30% dei lavoratori italiani ammette di avere competenze digitali non sufficienti per cambiare lavoro nell’anno di riferimento, contro il 20% della media Ue
Se la carenza di skills ci caratterizza dal punto di vista dell’offerta di lavoro, la penetrazione dei servizi economici digitali privati nella vita degli italiani resta scarsa. Solo il 42% dichiara di utilizzare applicazioni di remote-banking contro il 60% della media Ue e il 70% della Francia. La situazione è più rosea per i social network, oramai ampiamente utilizzati, e anche l’utilizzo di internet per cercare lavoro sembra in ascesa. Laddove invece la situazione è disastrosa è nel commercio online, in pratica fermo al palo, con solo il 22% degli individui che hanno ordinato beni e servizi online negli ultimi 12 mesi, contro 80% de Regno Unito e il 70% della Germania. Solo il 7% del fatturato delle imprese è riconducibile a commercio online, contro il 20% del Regno Unito, e il 13% della Germania. Senza troppe esitazioni: si sta scavando un abisso, laddove si fattura, il digitale è inesistente. L’Italiano online cazzeggia ma non spende, per usare una frase scherzosa. Evidentemente, il grado di fiducia nel commercio online dei consumatori italiani, assieme alle carenze della distribuzione, impediscono che questo nuovo settore, che in altri paesi è in boom, possa finalmente crescere in modo robusto anche nel nostro paese.
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Dove la situazione è disastrosa è nel commercio online, con solo il 22% degli individui che hanno ordinato beni e servizi online negli ultimi 12 mesi, contro 80% de Regno Unito e il 70% della Germania
Di fronte a questa situazione d’imbarazzante ritardo, gli ultimi governi italiani, coordinati con il piano europeo, si sono impegnati alacremente nell’attuazione della cosiddetta Agenda Digitale. Ebbene, a sorpresa gli indicatori meno disastrosi, sebbene sempre sotto la media, sono da ricercare proprio nel settore dei servizi di e-government. Non è la prima pubblicazione che mostra dati non malvagi, sebbene uno screening più attento della rilevanza di tali indicatori faccia sorgere una buona dose di scetticismo sulla rilevanza dei dati, che sono spesso di fonte governativa, raccolti grazie a questionari specifici inviati ai paesi membri della Ue. Secondo i dati, il 41% delle documentazioni prevede già una precompilazione da parte della pubblica amministrazione, percentuale superiore a Francia e Germania. Il 78% dei passi necessari per portare a buon fine una procedura amministrativa standard può essere compiuto online, dato simile ai due partner sopra citati. Il 100% dei servizi della Pa alle imprese e cittadini, a voler credere ai dati, è disponibile online.
Gli indicatori meno disastrosi, sebbene sempre sotto la media, sono da ricercare proprio nel settore dei servizi di e-government, che però sono poco usati
Ciò che fa sorgere più di un sospetto sulla genuinità di questi numeri è l’incidenza dell’uso effettivo di tali servizi, In Italia solo il 36% dei cittadini nell’ultimo anno dichiara di avere usato un e-service, contro il 75% della Francia e il 60% della Germania. Questi dati contrastanti possono essere letti in due ottiche diverse: o davvero tutti i servizi governativi sono online e il problema si situa nella scarsa dimestichezza dei cittadini con i mezzi tecnologici, osservazione compatibile con quanto sopra riportato in tema di competenze digitali della popolazione, oppure i dati riportati sulla disponibilità dei servizi di e-government sono ampiamente edulcorati. In mancanza di risposte più precise, il grafico sottostante mostra un fatto abbastanza curioso: la correlazione fra indice generale dei servizi digitali della Pa e l’indice d’integrazione digitale dell’economia privata sono, in realtà, poco correlati. A parità di qualità dei servizi pubblici digitali, il grado di integrazione digitale dell’economia privata italiana è – di molto – sotto la media.
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Il messaggio provocatorio per il governo in tema di Agenda Digitale è dunque abbastanza semplice: non sarebbe forse il caso di concentrarsi di più sulle carenze di investimenti e di capitale umano nel settore privato, piuttosto che lanciarsi in mitiche agende che forniscono servizi che nessuno utilizza? O l’Agenda Digitale intende seguire un processo di riforma complessivo, che punti direttamente alle vere cause dei ritardi, oppure il rischio è quello di passare dai ponti autostradali che finiscono nel nulla, agli e-gov services in pratica mai usati da alcun utente. Siti pieni di Open Data governativi, spesso senza standard se non un file Pdf, non sono un‘agenda, rischiano di essere strumenti da promuovere in un giorno, senza alcun reale beneficio di lungo periodo per cittadini e imprese.