Francesco Merlo copia se stesso su Mattarella e fa bene

Francesco Merlo copia se stesso su Mattarella e fa bene

Chi sia Mattarella lo ha spiegato meglio di tutti Francesco Merlo, gran ritrattista del nostro giornalismo, nel pezzo su “Repubblica” che raccontava la figura del dodicesimo presidente della Repubblica nel giorno della sua elezione. Scriveva, il 31 gennaio scorso, di questo siciliano schivo, silenzioso, immerso con profondità e consapevolezza in “quel tormento, che il più dolorista di tutti, Aldo Moro, chiamava ‘senso della storia’” (citiamo da Merlo).

Benissimo. Non certamente per mancanza di immagini, né per gusto autoconcluso dell’autocitazione, ma forse per suggerire a se stesso un legame tra figure unite dai fili del destino, Merlo ha ripreso certe immagini, perfino espressioni che aveva usato per un’altra incoronazione, anche quella avvenuta sul quasi limitare delle Repubbliche: era il pezzo che tratteggiava Mino Martinazzoli nuovo segretario della Democrazia Cristiana. Era, quella volta, non “Repubblica” ma “Corriere della Sera”: era il 4 ottobre 1992.

Laddove Martinazzoli “era un taciturno che aveva la passione della politica e della poesia: è venuto a fare l’originale a Roma”, d’altro canto abbiamo un Mattarella “taciturno palermitano con il tormento della politica”, anche lui “venuto a fare l’originale a Roma”; Martinazzoli poteva dire di sapere “quanto sia impervia la strada, suggerita dal Tommaseo, che incrocia la concisione con la precisione”, così come Mattarella è uno quelli che coltivano “l’utopia del Tommaseo che sognava di coniugare la concisione con la precisione”. Se Martinazzoli “può succedere che non dica proprio nulla ai pochi commensali, sempre quelli, che si porta dietro, tutti con gli occhi perduti dentro il piatto: ne cerca la compagnia per mostrare la sua solitudine”, alla stessa maniera Mattarella “imponeva il suo silenzio ai commensali, sempre quelli, che si portava dietro, tutti con gli occhi perduti dentro il piatto. Ne cercava la compagnia per mostrare la sua solitudine”.

Mattarella e Martinazzoli, i “taciturni”, gli “originali a Roma”, i due commensali di pietra, discepoli in concisione e precisione del Tommaseo, non sono la stessa persona, ma di certo incarnazioni di uno stesso spirito, espresso per analoghe attitudini. Questo è il punto. “‘Per un cristiano la politica è insieme doverosa e impossibile’ dicevano sia Mattarella e sia Martinazzoli” ci informa l’altro giorno Merlo nel passaggio in cui tira finalmente i fili delle somiglianze (peraltro erano due dei cinque dimissionari della sinistra dc che nel 1990 lasciarono, causa decreto Mammì, il governo Andreotti, sostituiti dal Divo e dal partito in meno di ventiquattr’ore).

Per spiegare meglio il carattere, Merlo si rifà allo Sciascia della “Morte dell’inquisitore” laddove si parla di uomini “di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio”. Non è peregrino forse tirare in ballo anche lo Sciascia del romanzo-apologo sui “cattolici che fanno politica”, su quella speciale classe dirigente (“E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro”), insomma lo Sciascia di “Todo modo” (“todo modo para buscar y hallar la voluntad divina” è la primera anotación gesuitica degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola) in cui a un certo punto lapidariamente si conclude: “Soltanto le cose che si pagano sono vere, che si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore”.

Siamo nel pieno della filosofia del dolore del moroteismo, che peraltro non fu atteggiamento di pensiero ma una circostanza di tangibile tragedia: nel caso di Moro, per il suo assassinio; nel caso di Mattarella, per l’assassinio del fratello Piersanti. Quanto a Martinazzoli, e alla sua prova più difficile ossia la segreteria della Dc colpita e affondata da Mani Pulite, ricordava egli stesso il momento con accenti quasi schilleriani: “Credo di avere rappresentato il segno di una tragedia che stava incombendo”. Per dire.

Secondo una classica dinamica di rappresentazione, non fu estranea nell’approcciarli l’ironia, sovente accompagnata dall’autoironia. A un’intera schiatta di democristiani doloristi si applicarono appellativi – originalmente partoriti giusto per Fermo Fermino Mino Martinazzoli – quali “cipresso, crisantemo, ministro di grazia e mestizia, senatore due novembre, il non più giovane Werther, buongiorno tristezza”… Non occorre ricordare che era quasi sempre fuoco amico, anche perché si intravvedeva in essi una specifica missione di destino assai pericolosa per il quieto vivere del biancofiore: quella di essere, da mesti e composti cavalieri dell’apocalisse democristiana, “la faccia drammatica dell’altra Dc – scrive Merlo su Mattarella – quella che dentro la Dc svolgeva il ruolo dell’anti Dc, quella che appunto già allora si ‘scorporava’ da sé”. Il ruolo giocato da Martinazzoli, a cui qualche milione di democristiani nostalgici non hanno perdonato né ancora perdonano di aver sciolto la Balena Bianca.

Ma dopotutto Martinazzoli stesso si definiva uno “strano democristiano”, che arrivava ad anteporre Manzoni a Sturzo (e sì ch’era pur sempre il rianimatore del Ppi…). E strano democristiano può, sull’arco teso dei paragoni, essere considerato il presidente Mattarella. Che nel pur sobrio e discreto tratto che già caratterizza l’incarico appena iniziato, può riservare sorprendenti progressioni.

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