L’autobiografia di Massimo Fini, intitolata Una vita e pubblicata il 12 febbraio da Marsilio, è un libro intenso, potente e per niente scontato, come da sempre ci ha abituato Massimo Fini. Il sottotitolo recita “Un libro per tutti, o per nessuno”, ma sono convinto che sbagli, e non solo per eccesso di retorica. Si sbaglia perché questo libro non è né per tutti, né per nessuno, è soprattuto per qualcuno.
Questo è un libro per adulti, è un libro per la generazione a cui appartengo, quella nata tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, che in questi anni si ritrova in mano le sorti della propria vita
Questo non è un libro per vecchi e non è nemmeno un libro per giovani – i giovani veri intendo, gli adolescenti, non quelli che continuano ad essere chiamati giovani fino a 50 anni. Questo è un libro per adulti, è un libro per la generazione a cui appartengo — io sono del 1982 — quella nata tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, quella che in molti ancora chiamano “giovane”, per l’appunto, ma che giovane non è più e che in questi anni si ritrova in mano le sorti della propria vita e — in qualche caso —comincia a trovarsi in mano anche le sorti di qualcosa di più grande della propria vita.
Un libro doloroso, violento e potente. Ma non come un pugno che ti arriva in piena faccia. Di più.
Per molti aspetti questo è un libro tenero, a tratti addirittura pacifico e pacificante — cosa che potrebbe stupire chi Massimo Fini lo ha conosciuto e amato come fine e tagliente polemista — tenero come una carezza, come il tono di un nonno verso un nipote, come in fondo sono spesso i racconti di chi ripercorre la propria vita dall’approdo dei 70 anni e ne vede i contorni più smussati, le tensioni diminuite, le passioni relativizzate.
Per altri aspetti invece questo è un libro doloroso, violento e potente. Ma non come un pugno che ti arriva in piena faccia. Di più. Perché rispetto a un cazzotto è più sottile, più lacerante, anche più duro, come la consapevolezza della nostra contingenza, della nostra marginalità, come una specie di tristezza cosmica che nella propria enormità — un’enormità che si lega alla sua essenziale definitività — ha in sé il proprio antidoto.
Il libro si apre e si chiude con due discorsi che proprio nella constatazione di una marginalità — prima storica, poi addirittura cosmica — hanno il proprio fulcro. E il caso non esiste, quindi qualcosa vorrà dire.
Il primo è proprio all’attacco, nella prima pagina dell’introduzione, ed è la constatazione di un passaggio storico che ha reso la nostra vita, a partire dal dopo guerra, più povera di come era prima. È una constatazione semplice, in realtà, ma di quelle semplicità che hanno origine nella lucidità, non nella superficialità.
Quando compii quarantacinque anni li confrontai con quelli di mio padre […]. Lui aveva vissuto la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale, il tracollo del regime, la guerra civile, la caduta della monarchia, l’avvento della Repubblica. Nella sua vita era successo di tutto, ma non era cambiato niente: i valori, i modelli, i costumi e, in buona sostanza, anche i modi di vivere erano rimasti gli stessi. Per la mia generazione (sono nato nel 1943) e tutte quelle del dopoguerra è stato esattamente il contrario: non è successo niente, ma è cambiato tutto, valori, modelli, costumi, way of life. […] mio padre, e tutti coloro che che hanno appartenuto a quelle generazioni, si sono trovati a vivere degli eventi fondanti che li hanno costretti a delle scelte. Sono stati, in maggiore o minor misura, protagonisti delle loro vite. Noi gli enormi cambiamenti avvenuti nell’arco della nostra esistenza li abbiamo vissuti passivamente, sono passati sopra le nostre teste. Si può dire sì o no al fascismo o alla guerra, non si può dire sì o no alla tecnologia o alla globalizzazione. Non sono eventi, sono processi inarrestabili che si insinuano nelle nostre vite, le avvolgono e le determinano senza che ci si possa fare nulla.
Il secondo è esattamente il finale. È una frase — un appunto a margine di La filosofia nell’epoca tragica dei greci — che Fini cita da Nietzsche, un personaggio ingombrante nella vita di Fini, che gli ha anche dedicato un bel libro intitolato Nietzsche. L’apolide dell’esistenza.
Questa volta la constatazione di assoluta contingenza fa un balzo avanti e da storica diventa cosmica: non riguarda più una parte dell’Umanità, le ultime generazioni, ma l’Umanità intera, e si scioglie in un vertiginoso, ma nello stesso tempo profondamente catartico, nichilismo cosmico:
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro su cui animale intelligenti scopersero la conoscenza. Fu il momento più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva. Quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto niente di notevole.
In questi due discorsi, uno suo e uno di uno dei più grandi filosofi della storia, il pessimismo di Massimo Fini si fa talmente lucido da spaccare l’asticella del pessimismo e approdare al puro realismo, e per questo, sebbene vertiginoso è — almeno per quanto mi riguarda — tranquillizzante. E lo è ancor di più perché, come un guscio di noce, racchiude un cuore tenero, quello dedicato ad alcuni episodi della propria giovinezza, o quello dedicato alla Milano degli anni Cinquanta e Sessanta — uno dei pezzi più affascinanti del libro — o ancora, quello dedicato ad alcuni dei personaggi che Fini ha avuto modo di conoscere nella sua carriera — fatta di scontri e polemiche, ma anche di rapporti profondi e amicizie importanti — da Giorgio Bocca a Indro Montanelli, da Claudio Martelli a Vittorio Feltri.
il pessimismo di Massimo Fini si fa talmente lucido da spaccare l’asticella del pessimismo e approdare al puro realismo
Un aneddoto, per concludere: lo scorso venerdì sera ho avuto la fortunata occasione di condividere con Massimo Fini un taxi che, dalla stazione Centrale di Milano, portava lui a casa e me e la mia ragazza a una festa alla Fabbrica del Vapore. Nel breve tempo del percorso in taxi parlammo brevemente di alcuni fatti di politica internazionale — mi sembra che l’argomento fosse l’assurda esecuzione del pilota giordano e che entrambi fossimo d’accordo su quanto fosse poco strategico da parte dell’ISIS fare incazzare dei beduini del deserto, per lo più vicini di casa — poi arrivammo davanti a casa sua, e ci salutammo.
Mentre il taxi ripartiva e passava davanti al portone della casa di Massimo Fini, che intanto cercava le chiavi in tasca, ho avuto la sensazione che sarebbe venuto volentieri con noi alla Fabbrica del Vapore, e non tanto per continuare la discussione, quanto per stare un po’ tra i ragazzi, che poi è il posto elettivo di Massimo Fini: il posto dei maestri. E io un pochino mi sono pentito di non averglielo proposto.