MILANO – Prima la minaccia in un video, poi anche la creazione di un presunto hashtag su Twitter. L’Isis continua la sua campagna mediatica lasciando intendere che è pronta ad arrivare nel nostro Paese. Nelle ultime ore sul sito di microblogging sembrerebbe sia stato lanciato l’hashtag — sulla cui provenienza sono però stati sollevati numerosi dubbi — #We_Are_Coming_Rome (Roma stiamo arrivando). A renderlo noto è stata Rita Katz, direttrice del gruppo di intelligence Site (Search for International Terrorist Entities): nel tweet oltre alle foto di jihadisti con bandiere dell’Isis, si legge il messaggio “Isis a Roma se Dio vuole”. Eppure, secondo l’intelligence italiana c’è il rischio concreto che alcuni esponenti dello Stato Islamico siano in Italia già da dicembre, giunti sulle coste siciliane in conseguenza all’enorme flusso di migranti proveniente da Libia ed Egitto. Ma è davvero Roma l’unico obiettivo dei militanti dello Stato Islamico? O anche Milano — città che in molti hanno già definito il “laboratorio dell’Islam Italiano” — potrebbe essere a rischio infiltrazioni terroristiche?
In questi giorni nel capoluogo lombardo a tenere banco è l’imminente scadenza del bando con cui il Comune destinerebbe alcune aree della città alla costruzione di luoghi di culto, tra cui almeno una moschea. Entro il 28 febbraio vanno assegnate le aree di Rogoredo e Lampugnano, e l’immobile della multietnica via Padova che Palazzo Marino ha individuato come spazi idonei da sfruttare per finalità religiose. Proprio su questo punto si era espresso il deputato di Scelta civica Stefano Dambruoso — ex magistrato, in passato impegnato sul fronte del terrorismo internazionale — mettendo in guardia le istituzioni sulla costruzione di moschee sul territorio comunale. Secondo Dambruoso, all’interno dell’albo delle associazioni religiose del Comune di Milano — coloro che hanno diritto a partecipare al bando in questione — ci sarebbero realtà iscritte nelle cosiddette “black list” governative di alcuni paesi stranieri.
«Al momento non mi risultano collegamenti diretti tra centri islamici di Milano e l’Isis», spiega Giovanni Giacalone, analista dell’osservatorio “Terrorismo globale” dell’Ispi (Istituto per gli studi di Politica Internazionale), «quindi non correlerei il tema della costruzione delle moschee a Milano con quello del fenomeno dello Stato Islamico. Se qualcuno in passato ha avuto a che fare con dei centri di culto milanese, finendo poi in Siria, è un altro discorso. A cui però io non posso dare nessuna conferma».
“Non ci sono collegamenti diretti tra i centri islamici milanesi e l’Isis”
Volendo tracciare una mappa delle luoghi più rappresentativi della cultura islamica milanese, bisognerebbe focalizzarsi principalmente su quattro realtà: la CO.RE.IS (Comunità Religiosa Islamica), la Casa della Cultura Islamica, l’Associazione Islamica di Milano (Moschea Mariam) e l’Istituto Culturale Islamico. Si tratta in sostanza di centri che si occupano di organizzare attività legate alla cultura islamica, una su tutte la tradizionale preghiera del venerdì, ma con delle caratteristiche differenti al loro interno. Per fare un confronto — tenendo comunque presente che, come sostiene Giacalone, è difficile fornire dati precisi e oggettivi sulle attività di questi centri — la Coreis è una realtà molto moderata, composta per la maggior parte da italiani convertiti e con un ottimo rapporto con le istituzioni, il cui esponente più rappresentativo è l’Imam Yaha Pallavicini. Mentre l’Istituto Culturale Islamico in passato ha dovuto affrontare diversi problemi legati ad una serie di indagini sul radicalismo che hanno anche portato all’arresto di uno degli ultimi imam, Abu Imad, e alla sua espulsione.
Proprio per questo il vero tema sui cui ragionare è capire come riuscire a tenere fuori la politica dai luoghi di preghiera musulmani. «Credo che sul discorso della costruzione di una moschea a Milano», continua Giacalone, «non ci sia più niente da dire. I musulmani hanno certamente bisogno di un luogo dove pregare, semmai i problemi più grossi sono da un lato quello dei finanziamenti, che devono essere trasparenti, dall’altro intercettare chi è che fa politica e chi no. La moschea che verrà dovrà essere una moschea di tutti, questo vuol dire che la politica deve rimanere fuori».
“La moschea deve essere una moschea di tutti. Affinché questo possa accadere la politica deve restare fuori dai principali luoghi di culto”
Una condizione non facile da realizzare e che prevede «uno sforzo intrinseco all’Islam. I musulmani non la pensano tutti allo stesso modo politicamente parlando, per questo le comunità e le organizzazioni islamiche devono fare la loro parte coordinandosi tra loro». Altro interrogativo da sciogliere riguarda l’effetto che avrà l’eventuale costruzione di una moschea sui piccoli centri di preghiera, che per la loro natura etnico-linguistica continuerebbero a esistere. «L’aspetto prevalente», sottolinea Giacalone, «riguarda chi andrà a gestire la moschea. Io musulmano che parlo una determinata lingua, come vedo una moschea gestita da una organizzazione che è lontana dalle mie radici etniche? Vado comunque o preferisco continuare a pregare nel piccolo centro in cui ho sempre pregato?».
Al momento, secondo quanto riportato da La Repubblica, sarebbero cinque le sigle islamiche in prima linea pronte a presentare un progetto in grado di assicurarsi il bando del Comune in scadenza il 28 febbraio. Nessun dettaglio dei piani è stato ancora reso noto, quel che si sa però è che l’universo islamico milanese sembra molto spaccato al suo interno. Ancor più di quanto si pensava. Sembra infatti che l’Istituto Culturale Islamico di viale Jenner sia in rottura con il Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) guidato da Davide Piccardo sulla questione dell’area dell’ex Palasharp. La tensostruttura di via Sant’Elia, dove dal 2008 si svolge la tradizionale preghiera del venerdì per i musulmani milanesi, sembra essere quella più ambita anche per l’imam di Segrate Ali Abu Shwaima, e per quello della Coreis Yaha Pallavicini. Coreis che parte con un vantaggio di non poco conto rispetto ai concorrenti, ovvero l’iscrizione all’albo del ministero degli Interni. Condizione che da sola porta quindici punti in più in fase di valutazione del progetto.
A poco meno di una settimana dalla chiusura del bando, lo scenario sembra ancora incerto. E per chi dovesse aggiudicarsi il bando di Palazzo Marino, resta l’incognita delle limitazioni imposte dalla legge approvata a fine gennaio dalla regione Lombardia. Un provvedimento che in molti hanno già ribattezzato “legge anti-moschee”, ma di cui si dovrà tenere necessariamente conto se non si vorrà inasprire una dibattito, quello sull’Islam, che coinvolge tutti.