Restituite la #refurtIVA, #annullaautogol, #siamorotti, #RenziRewind, #dicoNO33 e anche il “malus Renzi” da inserire in fattura, facendo il verso al bonus da 80 euro destinato ai lavoratori dipendenti. È nella protesta contro gli aumenti delle tasse previsti nella legge di stabilità che partite Iva e freelance si stanno facendo sentire anche in Italia. Soprattutto in Rete, che poi è l’habitat di molti dei nuovi lavori che vivono sul regime fiscale a undici cifre. Niente scioperi, non se lo possono permettere. Tweetbombing, salvadanai rotti e campagne di comunicazione virali sono le nuove forme di protesta che in un linguaggio classico si chiamerebbero sindacali. E che invece sindacali non sono. Semplicemente perché i sindacati non c’entrano. Siamo ancora lontani dalla Freelancers Union americana di Sara Horowitz che conta più di 200mila membri. Ma dietro gli hashtag ci sono piccole o grandi associazioni di freelance e professionisti autonomi, Acta, Alta Partecipazione, Confassociazioni, Colap, che stanno emergendo come soggetti di rappresentanza (anche mediatica) del cosiddetto “popolo delle partite Iva”, espressione che racchiude una fetta del mercato del lavoro italiano che va da 1,3 a 3,5 milioni di persone. A seconda che si considerino solo i liberi professionisti, i professionisti appartenenti agli ordini o anche i piccoli artigiani.
Qualcuno lo ha chiamato il “quinto Stato”. Ma a differenza del quarto, la rappresentanza dei freelance è ancora molto frammentata, così come lo sono le condizioni di lavoro. Ma le associazioni coinvolte nelle ultime proteste ammettono la necessità di «muoversi insieme», di «fare rete», anche «se ci sono delle differenze». E c’è pure chi sogna «una coalizione unitaria come quella americana, con delle istanze comuni da portare avanti». A partire dalle ultime decisioni del governo Renzi, dal quale i nuovi lavori si aspettavano più tutele e non più tasse.
Acta, acronimo di Associazione dei consulenti del terziario avanzato, nel 2004 è stata la prima organizzazione nata per dare rappresentanza a ricercatori, creativi, consulenti al di fuori di ordini e albi professionali. Ed è da qui che sono partiti molti degli hashtag recapitati negli ultimi mesi al profilo Twitter @matteorenzi. «I provvedimenti del governo hanno creato una situazione opposta da quello che ci si aspettava», dice Anna Soru, che di Acta è la presidente. «E proprio in questa situazione difficile abbiamo avuto un numero maggiore di iscrizioni. Paradossalmente, negli anni scorsi, quando siamo riusciti a bloccare l’aumento contributivo per la gestione separata dell’Inps, non abbiamo avuto grosse adesioni. Ora che invece non ci siamo riusciti, abbiamo registrato un aumento dei consensi». Il numero delle “tessere” Acta (costo: 50 euro) nei primi giorni del 2015 ha superato la soglia dei 500. «E molte sono persone nuove che si stanno avvicinando». I numeri non sono neanche paragonabili a quelli dei sindacati tradizionali. «Ma noi non diamo servizi», dice Soru, «non abbiamo l’assicurazione sanitaria come quella che offre la Freelancers Union in un Paese come gli Stati Uniti che non ha sanità pubblica, né abbiamo i Caf come i sindacati italiani. Offriamo giusto qualche convenzione. Chi si iscrive ad Acta lo fa solo per sostenere le nostre iniziative».
La rappresentanza dei freelance italiani per il momento è molto frammentata. Ma tutte le associazioni convergono sul bisogno di “fare rete”
Più alti i numeri di Alta Partecipazione, vicina al Partito democratico, che rappresenta oltre 50 associazioni con oltre 400mila iscritti in totale. È quella che si chiama organizzazione di secondo livello. E che, così come Confassociazioni e Colap (Coordinamento libere associazioni professionali), potrebbe discutere direttamente con il governo su come rimediare all’“autogol” (parole di Renzi) sull’inasprimento della tassazione per i minimi e l’aumento dell’aliquota contributiva della gestione separata fino al 33 per cento previsti nella legge di stabilità. Come accade per le altre parti sociali, insomma. «Ma ancora non siamo stati invitati», dice Andrea Dili, portavoce di Alta Partecipazione. «L’ammissione dell’errore è stato segno di onestà intellettuale, ma se hai sbagliato una volta, ora devi cambiare metodo. È necessario un confronto per spiegare al governo cosa siamo. Se hanno fatto quell’errore è perché non conoscono bene questo mondo».
Un mondo liquido, che aumenta di mese in mese (gli ultimi numeri dicono che a dicembre 2014 le nuove partite Iva sono cresciute del 203% anche per effetto dei provvedimenti della legge di stabilità) ed è sempre più giovane (più della metà delle nuove aperture del 2014 arriva da under 35). Un comparto fatto da molti nativi digitali, caratterizzato da forte innovazione (l’incidenza del lavoro autonomo nel settore tecnico-scientifico è del 15%, il più alto d’Europa) e da un’ampia presenza femminile (quasi il 40% delle nuove aperture arriva da donne). In questo calderone c’è di tutto: monocommittenti, pluricommittenti, vere e false partite Iva. Che non sono poi così tante: secondo uno studio del Laboratorio politiche sociali del Politecnico di Milano, i falsi autonomi non sarebbero più del 12% del totale, circa 400mila su oltre 3 milioni.
Se si vuole capire come si sta trasformando il lavoro, bisognerebbe dare un’occhiata da queste parti. «Eppure da questo governo sono state messe in campo solo politiche tradizionali», dice Dili. «Il Jobs Act è focalizzato sul lavoro dipendente, gli 80 euro sono solo per i dipendenti e l’intervento sul regime dei minimi favorisce artigiani e commercianti». Ma ora anche il governo, ammettendo l’errore, sembra essersi accorto di questo zoccolo duro, che è anche e soprattutto un bacino elettorale. «E tra i più attenti», sottolinea Anna Soru.
Se si vuole capire come sta cambiando il lavoro, bisognerebbe dare un’occhiata da queste parti: un mondo liquido in crescita fatto soprattutto da giovani e caratterizzato da forte innovazione
In questo mondo, insieme alla politica, l’altro grande assente di questi anni è stato il sindacato. «Vedendo nella partita Iva solo il ricco padrone e non il lavoratore, o considerando gli autonomi solo come false partite Iva o dipendenti mancati da riportare nel bacino della subordinazione», dice Anna Soru. La storia degli 80 euro in busta paga è emblematica: «I sindacati sono stati i primi a dire che questi soldi dovessero andare solo agli autonomi e non ai dipendenti. Noi siamo sempre stati o gli evasori o quelli che non hanno bisogno di aiuto». La stessa cosa è accaduta con l’aumento della contribuzione pensionistica al 33%, «da sempre appoggiata dal sindacato, con l’idea che in questo modo si evitassero le finte partite Iva. La proposta dei sindacati è che di questo 33% un terzo deve essere pagato dal committente. Ma una proposta di questo tipo dimostra ancora una volta che non si ha idea di come funziona questo mondo: se il committente mi dà mille euro, sono compresi di tutto e basta».
Come per il governo, anche nei sindacati sta prendendo piede l’ammissione dell’“autogol” sulle partite Iva. Più come singoli che come organizzazioni. Diversi sindacalisti hanno fatto outing sulla mancata comprensione del lavoro autonomo. E la Cgil ha creato una consulta delle professioni in cui i sindacalisti tradizionali si confrontano con le associazioni dei lavori autonomi e dei professionisti. Le altre sigle, a parte la partecipazione a qualche convegno, non sono andate oltre. «Noi vorremmo che fosse un processo più veloce», dice Andrea Dili, «ma per loro è più difficile».
Eppure è verso questo amalgama di autonomia, flessibilità, tecnologia e creatività che si starebbe muovendo tutto il mondo del lavoro. E non solo negli Stati Uniti, dove molte delle ragioni che hanno portato ai numeri positivi sull’occupazione vanno cercate nel bacino dei freelance (53 milioni secondo il sondaggio della Freelancers Union, con un contributo di 700 miliardi di dollari all’economia americana). Ma anche in Italia, dove il 60% delle piccole e medie imprese sopperisce alla difficoltà di assunzione esternalizzando molte funzioni. D’altronde già ora i professionisti, iscritti e non iscritti agli ordini, contribuiscono quasi al 18% del Pil italiano.
“Quanto sta accdendo dimostra che il sindacato non è altro che espressione di un bisogno di rappresentanza destinato a durare anche nell’era degli indipendent worker”
«Quanto sta accadendo dimostra che il sindacato inteso come collettivo organizzato non è altro che espressione di un connaturato bisogno di rappresentanza destinato a durare anche nell’ipotetica era degli indipendent worker», ha scritto Francesco Nespoli di Adapt. «Essere un freelance è la nuova normalità», ha detto in una intervista Sara Horowitz, a capo della Freelancers Union, «è una nuova grande forza lavoro ed è qui per rimanere». È per questo che Oltreoceano si stanno estendendo servizi, diritti e formazione anche a loro.
Le associazioni dei freelance italiane, grandi o piccole che siano, stanno facendo la loro, non solo protestando contro la pressione fiscale, ma anche portando avanti alcune proposte: dall’equo compenso per i giornalisti freelance al blocco dell’aliquota per la gestione separata dell’Inps, dove il guadagno medio di un freelance non arriva neanche a 19mila euro annue, fino all’estensione dell’indennità di malattia. «Chiediamo il blocco della contribuzione al 27%, che comunque rimane alto, e poi un intervento in prospettiva per avvicinare l’aliquota dei professionisti al 24% degli altri autonomi», dice Anna Soru. «Per quanto riguarda i minimi bisogna riportare la soglia ai 30mila euro, intervenendo però per alleggerire la pressione fiscale. Oggi un informatico autonomo con reddito basso ha già una pressione fiscale superiore a quella di un dipendente, e in più non ha né il welfare né gli 80 euro».
Nel 2014 Acta ha portato avanti anche una battaglia sul riconoscimento della malattia tra gli autonomi. Tutto è partito dalla testimonianza di Daniela Fregosi, consulente aziendale che si è ammalata di tumore al seno. A fronte di più di 75mila euro versati alla gestione separata dell’Inps dal 1997, il risultato per lei era un riconoscimento di un massimo di 61 giorni di malattia all’anno, con una assistenza economica di 13 euro al giorno. Da qui è nato un blog, Afrodite K, e una petizione per il diritto all’assistenza dei lavoratori autonomi che ha raggiunto quasi 80mila firme.
«Rispetto a quanto paghiamo, lo 0,72% del reddito, ci viene restituita solo la metà», dice Anna Soru. «Riteniamo che ci sia lo spazio per pagare l’assistenza nei casi di malattie lunghe e invalidanti come il cancro, in cui ci si trova nella situazione paradossale per cui si versano i contributi pensionistici senza ricevere alcuna assistenza. Lo chiediamo per le malattie più lunghe, che sono anche le più rare per fortuna. Non per il raffreddore, quello siamo in grado di risolvercelo da soli».