La riflessione sulla durata delle ferie scolastiche del ministro del Lavoro Poletti, secondo il quale sarebbe meglio utilizzare il tempo delle vacanze – almeno in parte – per qualche attività lavorativa estiva, ha suscitato un ampio dibattito sui nostri giornali e probabilmente, in molte famiglie italiane. Per Poletti i tre mesi consecutivi di vacanze scolastiche vanno a detrimento dell’apprendimento, e «sarebbe meglio per un ragazzino se invece di stare a spasso per le strade della città andasse a fare quattro ore di lavoro».
Vi è da dire che Poletti solleva una questione corretta. Come mostrato dal grafico con dati Eurostat, infatti, in media negli ultimi 3 anni il tasso di occupazione dei nostri 16-19enni si aggira attorno al 3 per cento. In pratica studiare e lavorare sono due mondi distinti, e non solo nel nostro Paese, come il nugolo di punti vicini al valore italiano dimostra. In realtà un trend discendente nelle probabilità di impiego dei giovanissimi si è andato manifestando anche in Paesi non europei. Negli Stati Uniti, per esempio, la crisi ha portato con sé una brusca correzione del tasso di occupazione dei teenagers; dimentichiamoci le serie tv sugli adolescenti che finanziano le loro piccole spese con lavoretti estivi: anche oltre oceano è una scelta sempre meno di moda. Il momento dell’investimento in istruzione e il momento del lavoro sono perciò due realtà sempre più distinte, e – probabilmente- il cambio di abitudini, accelerato dalla crisi economica, è alla base di questo cambiamento.
Nonostante tutto, il nostro Paese non si caratterizza certo per l’alta incidenza di lavoratori fra i nostri teenagers: la media della Ue, sebbene bassa, è distante di ben più di 10 punti percentuali.
Il livello del tasso di occupazione, però, nasconde realtà fattuali molto differenti. È ben noto, infatti, che una buona parte dei Paesi europei, soprattutto del Nord, adotta un sistema duale d’istruzione, con una pronunciata alternanza scuola-lavoro. Parte della differenza nei livelli è perciò spiegata dall’organizzazione del sistema scolastico. Plottando, perciò, il livello del tasso di occupazione e la sua differenza fra mesi estivi e invernali, il che dona un’indicazione sull’incidenza dei “lavoretti estivi”, si nota come il cluster di Paesi sopra la linea retta di regressione, caratterizzati da alti livelli del tasso di occupazione e relativamente basse differenze stagionali, sia proprio formato da quelli con sistema duale: Germania, Danimarca, Svizzera, Austria, Regno Unito.
Un altro gruppo di Paesi, nella parte destra sotto la linea di regressione, fra cui Svezia e Finlandia, si caratterizza, invece, per alta stagionalità del lavoro dei giovani, e un tasso medio annuale più moderato: sono visibilmente quelli in cui l’incidenza del lavoro estivo è più elevata.
Ora, è impensabile che l’Italia si sposti – magicamente – nel cluster appena citato: la storia ci insegna che se sei ateniense non vi è modo di diventar spartano; la scelta di studiare d’inverno e lavorare nelle ferie dipende in massima parte dalle preferenze individuali e sociali. Le lotte culturali, anche se provenienti da un ministro in carica, sono forse il modo meno incisivo per cambiare le decisioni degli agenti economici, soprattutto nel caso in cui la cultura che le determina è così decisiva.
Se, invece, realisticamente si volesse davvero adottare un sistema di alternanza scuola-lavoro, con l’intenzione di “muovere” il punto dell’Italia verso il gruppo dei Paesi che utilizzano tale sistema, allora – dispiace dirlo – la “Buona Scuola” è ampiamente insufficiente. Alcuni esponenti di governo e maggioranza hanno già segnalato che secondo loro la riforma Giannini già prevedrebbe del tempo dedicato ad attività lavorative, dopo la fine regolare dei corsi. Ci permettiamo però di rilevare che il finanziamento di cento milioni, come dichiarato dalla Giannini, convogliati su una riforma sistematica e complessa, è una presa in giro: il solito vizio italiano delle spese irrisorie a pioggia. L’alternanza scuola-lavoro così come disegnata dalle precedenti riforme, e che l’ultima non pare in grado di rivoluzionare, sembra più una battaglia nominale che reale. I sistemi duali sono complessi e prevedono una forte integrazione fra scuole e mondo del lavoro. I nostri istituti, soprattutto professionali – se lasciati a se stessi – sono incapaci di sviluppare la rete di relazione necessaria. La qualità delle scuole professionali è, nei fatti, scadente, qualsiasi indicatore statistico si utilizzi.
Ancora una volta, le più gravi mancanze nell’azione del governo sono nel campo delle politiche scolastiche: non è una bella notizia per i nostri giovani ragazzi, che già non brillano in competenze nel contesto europeo. Esiste uno iato crescente fra dichiarazioni ampiamente condivisibili sugli obiettivi di governo e articolati di legge. Renzi, anche ieri, ha ricordato che il futuro del suo governo, e più in generale dell’Italia, si gioca sulla scuola. Come non essere ampiamente d’accordo? Ma non è con la riforma presentata nei giorni scorsi, in tutta onestà piuttosto amatoriale, né con le dichiarazioni estemporanee di un ministro, che si cambia l’abbrivio di un sistema d’istruzione carente e totalmente slegato dal mondo del lavoro.