Sul Corriere della Sera di oggi, si è ventilata l’ipotesi dell’introduzione del salario minimo legale in Italia. La proposta è, in effetti, parte di una delle deleghe collegate al Jobs Act, sebbene in passato più di osservatore avesse posto qualche dubbio sulla effettiva volontà del governo di introdurre una tale misura nel nostro Paese.
La proposta prevedrebbe un salario minimo orario vicino ai 6,5/7 euro. La figura 1 stima il rapporto fra salario minimo (nella sua ipotesi più bassa di 6,5 euro) e quello mediano, quest’ultimo stimato a partire dai dati Silc 2012 e rivalutato per tenere conto della dinamica inflattiva. Come si può osservare, l’Italia si attesterebbe nella parte alta della distribuzione fra i paesi Ocse, con un rapporto simile a quello francese.
Figura 1 Rapporto fra salario minimo legale e salario mediano (2013, stima ad oggi per Italia)
In questo caso vale quanto già detto per la Grecia: siamo proprio sicuri che in un Paese dove il lavoro nero la fa da padrone in molti settori, un salario minimo relativamente così alto, che risulterà stringente per una gran parte dei lavori, soprattutto nei servizi con basse competenze, non sia controproducente? Non rischieremmo di spingere più lavoratori nelle braccia del lavoro nero?
Vale quanto già detto per la Grecia: non rischiamo di spingere più lavoratori nelle braccia del lavoro nero?
Per di più, ricordiamo che gli effetti negativi sull’occupazione, sebbene non enormi, sono maggiori per lavoratori a bassa qualifica, giovani e donne, ovvero i gruppi già fortemente svantaggiati sul nostro mercato del lavoro. Siamo certi che usare il salario minimo sia il modo migliore per combattere la povertà – visto che i loro proponitori sostengono che a questo serva – senza che questo abbia affetti negativi importanti su ampi segmenti del mercato del lavoro? La Figura 2 in effetti mostra che alti salari minimi sono associati a una minore dispersione salariale – misurata dal rapporto fra salario mediano e primo decile salariale – ovvero l’introduzione di alte soglie tende a appiattire la prima parte della distribuzione salariale. Almeno a prima vista, quindi, il salario minimo pare un tool efficace per combattere la povertà relativa. Ciò che il grafico non mostra è che una buona parte di lavoratori con basse qualifiche non sarebbe pagata al minimo, ma in nero o addirittura rimarrebbe disoccupato. Sappiamo quantificarne gli effetti? Sarebbe necessario.
Figura 2 Relazione fra salario minimo e dispersione salariale
Tra le altre cose, va ricordato che il salario minimo ha non solo di per sé un impatto diretto sul mercato del lavoro, ma che anche l’interazione di alti salari minimi legali con altre politiche, come quelle fiscali o la contrattazione collettiva, possano avere effetti indesiderati importanti. In Francia, il peso altissimo del fisco fa sì che senza crediti fiscali importanti alle famiglie in molti settori dei servizi alla persona, le famiglie non potrebbero per esempio pagare salari così elevati, per esempio per baby-sitter o badanti. Servirebbero dunque aggiustamenti importanti per controbilanciare gli effetti negativi dell’interazione fra fisco e salario minimo legale, come per esempio un minimo più basso per i giovani, come accade nella stragrande maggioranza dei paesi Ocse.
Una buona parte di lavoratori con basse qualifiche non sarebbe pagata al minimo, ma in nero o addirittura rimarrebbe disoccupato
Inoltre, si può notare dalla figura 1 come il numero di Paesi che abbiano il salario minimo e, contemporaneamente, una contrattazione collettiva non aziendale (in grigio, così come definita dalla tassonomia Ocse) sono pochi – il 25% del campione contro un’incidenza di sistemi non decentrati pari al 45% rispetto al totale dei paesi Ocse – e l’Italia sarebbe uno di quelli. Il salario minimo ha certamente senso in un Paese come la Germania, dove la contrattazione collettiva dopo gli aggiustamenti apportati vira sempre più verso una contrattazione aziendale tout court, e dove il lavoro nero non ha la stessa rilevanza che ha in Italia. Protegge i lavoratori a basso potere contrattuale, senza impattare su altri aspetti della contrattazione. Siamo davvero sicuri che dare in mano al sistema politico italiano le decisioni sul salario legale, in assenza di forte decentramento contrattuale, sia cosa buona e giusta? Chi ci assicura che non sia utilizzato in modo improprio a fini elettoralistici, con cambiamenti slegati dalla reale dinamica del mercato del lavoro?
Sono tutte questioni legittime cui i proponenti dovrebbero una risposta esauriente.