C’è chi dice di “no” a Expo 2015. E lo fa da almeno otto anni. «Non ci interessano posizioni pregiudiziali, i ritardi sulla costruzione dei padiglioni o i casi di corruzione, la nostra è stata una posizione che abbiamo portato avanti sin dal 2007: questa di Expo è una bolla socialmente molto pericolosa. È una grande torta a cui hanno mangiato tutti, dai sindacati alle istituzioni, dall’impresa alla finanza, dove le critiche non sono ben accette, basta guardare gli articoli dei giornali pagati da Expo che lo promuovono ogni giorno».
A parlare è Alberto “Abo” Di Monte, attivista della rete No-Expo di Milano, l’altra faccia di una città che si prepara tra pochi giorni alla sbornia collettiva dell’apertura della manifestazione universale. Abo è laureato in Geografia proprio con una tesi su Expo. Ha scritto col collettivo Off Topic un libro “Expopolis” assieme al giornalista di Radio Popolare Roberto Maggioni. Nell’introduzione si legge «Perché è davvero dura essere “Sì Expo”, sostenere un evento anacronistico, dove l’1% guadagna sulle spalle del 99%». In questi anni Di Monte e gli altri si sono studiati tutta la storia dell’esposizioni universali, a partire da quelle di inizio novecento, quando il capoluogo lombardo promuoveva i trasporti in un Italia rurale e contadina. È uno dei massimi esperti sul tema e ha capito dal principio cosa sarebbe accaduto: «Le esposizioni fino agli anni ’70 sono sempre state incentrate sull’innovazione – spiega – , si esponevano mezzi che avrebbero potuto aiutare a migliorare la vita delle persone, poi con il tempo sono cambiate. Ora si cerca di inventare un brand. Milano non è più la città industriale di una volta, non è più quella della moda e anche quella del design è un altro bluff mediatico. Quindi per creare un “qualcosa di appetibile” si è puntato tutto sul food, anche se non c’è una filiera ma un’idea perversa di sovranità alimentare».
«Milano è una città senza più vocazione. L’operazione Expo è stata concepita per riaffermare un ruolo nazionale e internazionale»
Pare di ascoltare le parole del professore di storia contemporanea della Bocconi Giuseppe Berta che nel libro la «Via del Nord» scrive: «Milano è una città senza più vocazione. L’operazione Expo è stata concepita per riaffermare un ruolo nazionale e internazionale di Milano, una porta aperta sul mondo. Ma finora questa operazione non è stata declinata: Milano non manda più messaggi al Paese». Per Di Monte la questione è di portata ancora più ampia. Riguarda le stesse politiche del governo di Matteo Renzi, a partire dall’introduzione del Jobs Act fino al modello commissariale dello Sblocca Italia. «Expo doveva essere portare migliaia di posti di lavoro, in realtà ne ha portati molti di meno e ha ratificato la precarizzazione. Per di più c’è pure chi lavora gratis con l’inganno di servire un evento che potrebbe fare curriculum». Di pari passo lo Sblocca Italia. «La continua necessità del commissariamento o di velocizzare le procedure sugli appalti arriva dai tempi della cricca Balducci: qui nessuno dice che buona parte delle assegnazioni di Expo è stata diretta e non per gara. Basta pensare al caso di Eataly di Oscar Farinetti».
«Il nostro è stato sempre un ragionamento molto semplice: nel 2016 alla fine di tutto la nostra città sarà arricchita o impoverita? Più libera e verde o sempre più scacco della speculazione?»
Da registrare che l’annata 1906 a Milano non fu il massimo. Bruciarono metà dei padiglioni, così come saltò la catena di comando dell’Expo ’92 a Genova. «Perché di fondo l’Expo porta pure un po’ sfiga» aggiunge Abo, che non sta in Bocconi, ma in uno spazio occupato all’Isola dove si può ascoltare jazz e dove le vetrine sono trasparenti. «Perché non abbiamo niente da nascondere». Partendo quindi dal concetto dell’impatto che le altre esposizioni avevano avuto sulle altre città negli ultimi anni, il collettivo No Expo già nel 2007 protestò contro il Bie in visita a Milano. «Il nostro è stato sempre un ragionamento molto semplice: nel 2016 alla fine di tutto la nostra città sarà più arricchita o più impoverita? Più libera e verde o sempre più scacco della speculazione?».
Domanda non scontata, anche perché a vedere come sono andati i grandi eventi in giro per il mondo negli ultimi anni c’è da mettersi le mani nei capelli: proprio in questi giorni gli stadi ormai inutilizzati dei mondiali del Brasile 2014 sono in vendita perché la società che li ha costruiti sta fallendo. Cosa resterà di quello che è stato costruito a Rho? Il rischio è di un’ubriacatura di eventi per sei mesi che potrebbe portare solo a un grande stordimento senza un reale cambiamento, senza soluzioni per il problema abitativo né rilancio per il tessuto sociale lombardo. Non solo. Per ritornare a Milano, Di Monte prende ad esempio il sistema infrastrutturale lombardo, un fallimento se si guarda la situazione della Bre-Be-Mi, un tratto autostradale deserto dove transitano pochissime auto e un rosso di 35 milioni di euro a bilancio, già all’attenzione della Direzione Nazionale Antimafia per interramento di rifiuti tossici. «La nostra critica di partenza fu questa. Invitavamo il governo e la giunta di ripensarci. E a capire che c’era uno scollamento tra le esigenze della città e gli investimenti fatti. Milano ha una quantità spropositata di immobili disabitati. Soprattutto invitavamo il comune a pagare una piccola penale ed uscire da Expo perché in questo modo si sarebbe potuto reinvestire in un’altra maniera sulla città».
La stampa già li dipinge come pericolosi Black Bloc. «A noi interessa che sia una giornata di mobilitazione di massa e che i cittadini si rendano conto di quello che vuol dire Expo. Porteremo in piazza 40mila persone»
Anni di “lotta” quelli della rete No Expo. La giunta di centrosinistra di Giuliano Pisapia che sostituì quella di centrodestra della Moratti non ha aiutato. «Ha semplicemente ratificato quello che era stato fatto prima». Ma il lavoro di coinvolgimento della città è continuato. Con il gioco Expopolis (un update del noto Monopoli), con le assemblee cittadine, senza che i media si accorgessero di loro se non perché “pericolosi” o perché “expogufi” da contrapporre agli expottimisti. Hanno vinto la battaglia contro il progetto delle vie d’acqua «che il comune ha poi deciso di bloccare, e dirottando alcuni fondi sulla situazione del Seveso». Il 1° maggio sfileranno per la città in corteo. «Non vogliamo che il lavoro di otto anni sia ipotecato né si esaurisca in una singola giornata». Ma la stampa già li dipinge come pericolosi Black Bloc. «A noi interessa che sia una giornata di mobilitazione di massa e che i cittadini si rendano conto di quello che vuol dire Expo. Porteremo in piazza 40mila persone». La scommessa del 2007 è già stata in parte vinta. Il flusso di turisti in arrivo è dimezzato rispetto alle previsioni del passato, da 20 milioni a 10. Soprattutto c’è ancora vaghezza sui biglietti venduti, che sono stati ceduti dalla società Expo ai tour operator ma su cui non si ha ancora certezza: l’affluenza reale avrà un impatto economico non indifferente dal punto di vista commerciale. E poi ci sono i casi di Mc Donald’s, Dupont e Coca Cola, «perché solo chi ha le risorse può costruire e prendere parola» dice Abo. E il caso della Lettonia ne è un esempio: ha dovuto rinunciare al suo padiglione perché il governo non aveva abbastanza soldi.