’O pernacchioIl ritorno di Devil

Il ritorno di Devil

Raccontare gli eroi per quello che sono è – tutto sommato – facile. Raccontare le loro gesta, la loro forza, la capacità che hanno di cavarsela in ogni situazione: questa è la parte di storia che siamo abituati a sentire, di cui, probabilmente, non ci stancheremo mai. Ma parlare anche dell’uomo, di chi si cela dietro la maschera, è un processo tanto difficile quanto – se riesce – soddisfacente: il racconto funziona meglio; il genere, quello del cinecomic, viene messo momentaneamente da parte, e alla scrittura viene dato più spazio. Si predilige la qualità, non la quantità.

I momenti più piccoli e intimi, quelli che – causa tempo e costi – solitamente non vedremmo nelle grandi storie, nei grandi film action, ricevono una cura particolare: diventano vividi, palpabili, verosimili. È così che nasce Daredevil, la nuova serie di Netflix e Marvel Studios; è così che uno dei personaggi più amati – sicuramente uno dei più interessanti – dell’immaginario della Casa delle Idee viene raccontato. Non solo l’eroe, la maschera e il guerriero; ma anche l’uomo, l’orfano, l’avvocato.

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È una storia che guadagna spessore a ogni scena, a ogni battuta – i personaggi ci vengono presentati naturalmente, senza alcuna forzatura. L’inizio è, come in tutte le storie, quello della genesi dell’eroe: come Devil è diventato Devil. Come l’uomo è riuscito a liberarsi della paura.

Alla narrazione degli eventi attuali vengono alternati flashback: quando Matt Murdock era ancora un bambino e viveva con suo padre, e da suo padre veniva istruito – non sulla lotta, ma sulla vita: «Rialzarsi, rialzarsi sempre. Non importa quanti colpi andranno a segno. Non importa vincere o perdere. La cosa fondamentale è non gettare la spugna, mai». Come un Batman senza soldi e mantello, non – subito – orfano di padre e sicuramente, per le sue capacità, più speciale.

Questa, però, è una storia Marvel, non DC. E allora ritroviamo anche i collegamenti con gli eventi di New York, quanto cioè successo dopo l’invasione aliena in Avengers di Joss Whedon: la città va ricostruita, i potenti si dividono gli appalti e la mafia, la “mala”, la fa da padrona. Non ci sono però le “forzature” di Agents of SHIELD: lì, la voglia di soddisfare il grande pubblico si fa sentire. C’è il costante ed eccessivo rimpinguare gli eventi con fatti eccezionali, non necessari al filo del racconto, che anziché avvicinare il pubblico lo allontanano. Meritandosi l’etichetta di “cosa già vista”.

Non è così in Daredevil: la struttura narrativa segue la solita impostazione di Netflix. 13 episodi, che possono essere guardati insieme, uno dopo l’altro, legati a doppio filo da una storia che non si riduce ai 50 minuti per puntata, ma che continua: quello che succede alla fine del primo episodio sarà quello che darà inizio al secondo.

Il Devil che conosciamo, con il volto e la voce e il sorriso di Charlie Cox, è il “primo” Devil: il suo costume non è ancora quello rosso; in giro, è conosciuto come “vigilante mascherato” e non con il suo nome. È ancora “work in progress” ma come lascia immaginare l’opening della serie presto lo vedremo anche nella sua forma definitiva, avvolto di rosso, con piccole corna sulla fronte e con solo il mento, una mascella squadrata e importante, offerta alla vista.

Non c’è la netta distinzione tra bene e male. Non ci sono eroi totalmente eroi e cattivi totalmente cattivi. Lo stesso Devil non si ferma davanti a niente: spezza, maciulla, colpisce. Il suo unico limite è non uccidere. Ma ci si avvicina spesso. Nei suoi combattimenti, vediamo la difficoltà, il dolore, la sofferenza – non è scontato che ne esca vincitore, e spesso, anzi, è costretto anche a scappare. In questo sta la forza e la bellezza di questa serie tv: una serie che non si limita a dire chi è, com’è nato e che cosa fa l’eroe Daredevil; ma che prova ad andare oltre, ad aggiungere dettagli, colore e intensità al personaggio ideato da Stan Lee. E lo fa dando spazio a ogni volto, ogni voce.

Foggy Nelson, il partner di Murdock, è interpretato da Elden Henson: perfetto nel suo ruolo, simpatico e cinico, con un piede sempre nel luogo comune, quello delle barzellette sugli avvocati, e l’altro ciondolante nel tentativo di fare – di dire – la cosa giusta. Mosso a coscienza proprio dal suo collega.

Quindi c’è Rosario Dawson, Claire Temple: che incontriamo solo nel secondo episodio ma che, con il suo faccia-a-faccia con Devil, ci permette di scoprire molte più cose sul conto dell’eroe (come funzionano, per esempio, i suoi sensi). Il paragone con il Daredevil di Ben Affleck sarebbe inappropriato e fuori luogo, eccessivo sotto tutti i punti di vista e anche – bisogna dirlo – impietoso. Non si può fare. Non c’è spazio. Daredevil è una serie che funziona, non paragonabile a nessun altro prodotto precedente (e forse futuro) dei Marvel Studios: un po’ come l’Occhio di Falco di David Aja e Matt Fraction, un fumetto che ha saputo ridare all’eroe la sua dimensione di uomo. Di “perdente”.

Il merito, poco ma sicuro, va dato a Netflix e all’ideatore della serie, Drew Goddard, e al suo showrunner Steven S. DeKnight.

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