Il governo ha ieri iniziato a discutere il Def 2015 in Consiglio dei Ministri. Le cifre di riferimento, oggi riportate dai maggiori quotidiani, sono improntate alla prudenza, per quanto riguarda le previsioni di crescita, mentre si sconta un nuovo rinvio del pareggio strutturale, sebbene il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan abbia ripetuto come a legislazione vigente il saldo strutturale, ovvero corretto per gli effetti dei del ciclo economico, dovrebbe essere in equilibrio già dal 2017. È dunque nel 2016 che il Governo intende utilizzare buona parte della flessibilità concessa dalle nuove regole europee, per puntare a un deficit nel 2015 del 2,6% e derogare agli impegni presi nel Def 2014, ribaditi nella nota di aggiornamento, che prevedevano rispettivamente un indebitamento netto delle Pubbliche Amministrazioni pari allo 0,9% e al 1,8% del Pil.
Va dato atto al ministero dell’Economia di non essersi lasciato andare a previsioni troppo ottimistiche sulla crescita economica
Lo scarto per difetto è perciò il risultato di una scelta politica chiara: il governo Renzi si sta sempre più caratterizzando per una politica economica prudentemente espansiva dal lato della politica fiscale, mentre quella monetaria della Bce dovrebbe, nelle speranze del Governo, favorire la crescita della zona Euro, e dell’Italia in particolare. I detrattori potrebbero, ancora una volta, far notare come gli impegni presi di fronte ai partner europei continuino a essere procrastinati di anno in anno, nell’attesa salvifica di quel minimo di crescita che aiuti la correzione dei conti e il contenimento del debito pubblico, superiore al 130% del prodotto lordo.
Va dato atto al ministero dell’Economia di non essersi lasciato andare a previsioni troppo ottimistiche sulla crescita economica. I dati della prima parte di anno fanno credere che lo 0,7% di crescita reale per il 2015 sia la migliore previsione possibile, ancorata com’è – tra l’altro – alle prudenti stime dell’Ocse che, come ci ricordava ieri il Corriere, è l’istituto internazionale che – sebbene non scevro da errori di previsione – è quello che negli anni precedenti ha sbagliato meno di tutti. Padoan, che dell’Organizzazione parigina è stato capo economista, lo sa, e ben fa a non cedere all’ottimismo di maniera, che se traslato sulla programmazione economica porterebbe, nel caso di previsioni eccessivamente speranzose, a brusche correzioni in corso d’opera. Sappiamo tutti come il premier tenda spesso, nella sua comunicazione, a cedere all’ottimismo: essersi convinto che sui numeri del Def serva, per una volta, prudenza è un atto di buon senso, ma che nasconde probabilmente la speranza che le cose vadano meglio del previsto, e si possa così incassare dalla maggiore crescita un dividendo spendibile in corso d’anno.
È dal 2012, con Giarda e poi Cottarelli, che un commissario deve lottare come un titano contro le diverse amministrazioni anche solo per ottenere i dati
Usiamo la parola spendibile non a caso, perché è chiaro, purtroppo, che il governo Renzi non si discosta dai precedenti di Letta e Monti, e pare sin qui non in grado di dare credibilità al piano di revisione della spesa pubblica. È dal 2012, con Giarda e poi Cottarelli, che lo schema utilizzato per identificare e poi dare attuazione ai tagli di spesa assume caratteristiche top-down: un commissario, con indubbie competenze tecniche, che lotta come un titano contro le diverse amministrazioni anche solo per ottenere i dati necessari all’analisi iniziale.
In più, a quanto pare la divergenza con Cottarelli, sebbene mascherata da un addio senza troppe polemiche, sembra essere stata piuttosto sugli obiettivi politici. Evidentemente, con Gutgeld e Perotti al timone del comando, almeno gli obiettivi dovrebbero essere condivisi. Non si dimentichi, però, che senza toccare la spesa pensionistica, pari al 14% del Pil, concentrando gli sforzi solo sui costi standard degli acquisti intermedi della Pa senza aggredire il costo del lavoro, preponderante nei servizi pubblici, la spesa su cui fare economie è una frazione piccolissima del totale. Il peccato capitale delle Spending Review, da Giarda in poi, è di concentrarsi su una definizione ristrettissima di “spesa aggredibile”. Da questo punto di vista i tagli alle detrazioni e agli incentivi non si discostano molto da questa logica: si sta raschiando il fondo di un barile, meglio dire di una botticella, che noi stessi abbiamo voluto minuscolo.
Con Gutgeld e Perotti, almeno gli obiettivi dovrebbero essere condivisi. Ma concentrandosi solo sui costi standard la spesa su cui fare economie è piccolissima
Si prenda come esempio il famoso credito d’imposta di 80 euro mensili. Anche questa è, concettualmente, una “tax expenditure”. Il governo intende, perciò, ricollocare spesa pubblica, sotto forma di minori detrazioni, deduzioni e incentivi per finanziare la misura decisa l’anno scorso, e che ancora non ha chiare coperture di lungo periodo.
È la solita logica italiana: la spesa corrente al netto degli interessi viene solo riposizionata da un capitolo a un altro. Renzi, in conferenza stampa, ha di nuovo espresso la sua personalissima idea: fra bonus di 80 euro e incentivi alle assunzioni le imposte caleranno di 18 miliardi nel 2015. Ciò che non ci ha mai convinto di questa impostazione è che omette di dire che un credito d’imposta permanente, o incentivi permanenti alle assunzioni, non è il modo migliore di abbattere strutturalmente le tasse. Se fossimo imprenditori ci aspetteremmo che queste misure nell’arco degli anni sfumino, se la spesa non fosse messa sotto controllo. Il deficit permanente va finanziato con maggiori tasse, o minori detrazioni, domani. Non si scappa da questa logica economica chiara, presente in qualsiasi libro di testo di macroeconomia, di qualsiasi sfumatura.
Gli 80 euro rientrano nella solita logica italiana: la spesa corrente al netto degli interessi viene solo riposizionata da un capitolo a un altro
Gli operatori economici in gran parte lo sanno e ne anticipano gli effetti, ed è anche per questo che gli effetti anti-ciclici del bonus sono stati infinitesimali: i consumi hanno contribuito alla crescita del Pil per uno 0,1% negli ultimi due trimestri del 2014. Non un risultato stellare. Il governo sta impegnando risorse ingenti, superiori all’1% del Pil, in politiche di breve respiro. Tagliare le aliquote Irpef, tagliare l’Irap in modo sostanzioso, finanziando le minori entrate con meno spesa corrente è certamente meno “storytelling” di un bonus molto mediatico, ma è meno distorsivo e più efficace. Dona i giusti incentivi a imprese e consumatori, segnala che le cose cambieranno in modo strutturale, e che la prima folata di vento non spazzerà via le agevolazioni fiscali.
I dati del Mef ci ricordano che una buona parte di tali misure è finanziata traslando la tassazione sui risparmi
In più, i dati di martedì del Mef, che descrivono un boom delle entrate fiscali, nel primo bimestre 2015, dei sostitutivi d’imposta sui redditi da capitale e sui fondi pensione, ci ricordano però che una buona parte di tali misure è finanziata traslando la tassazione sui risparmi. Dal punto di vista della politica fiscale, il governo Renzi appare molto tradizionale, molto di sinistra, checché ne pensino molti. Si redistribuisce carico fiscale e spesa pubblica corrente, lasciando gli aggregati intatti, al netto del maggior deficit. Onestamente, non un gran cambio di verso.