Nell’attuale fase storica, dopo l’approccio ispirato alla deregulation degli anni Settanta/Ottanta e al libero mercato degli anni Novanta, la politica industriale sta tornando al centro dell’Agenda dei Governi come strumento per reagire alla crisi economica e per rilanciare il tessuto produttivo.
Tra i principali Paesi industrializzati, l’Italia non ha ancora definito una strategia organica in grado di ottimizzare i vantaggi competitivi del proprio sistema industriale e rispondere alle sfide competitive.
Iniziamo a registrare importanti segnali incoraggianti di re-shoring: L’Oreal, Lavazza, Whirlpool, Dow Chemical
Il rilancio di una forte ed incisiva politica industriale deve rappresentare una priorità per l’Italia e per l’Europa. Iniziamo a registrare importanti segnali incoraggianti di re-shoring, cioè reinsediamento in Italia di capacità produttive, precedentemente spostate all’estero. I casi di L’Oreal, Lavazza, Whirlpool, Dow Chemical sono alcuni esempi tra i tanti che potremmo citare.
Tra il 2000 e il 2013, il peso della manifattura si è ridotto dal 18,5% al 15,1% del Valore Aggiunto nell’Ue-28, con una perdita di quasi 10 milioni di posti di lavoro
La manifattura è una componente fondamentale per lo sviluppo: nell’Ue-28 genera il 74,7% dell’export, il 63,8% della spesa in R&S e contribuisce al 60% della crescita della produttività. Proprio in Europa è tuttavia in corso una progressiva deindustrializzazione: tra il 2000 e il 2013, il peso della manifattura si è ridotto dal 18,5% al 15,1% del Valore Aggiunto totale prodotto dall’Ue-28, con una perdita di quasi 10 milioni di posti di lavoro. L’Ue si è data l’obiettivo di raggiungere il 20% del Pil da manifattura entro il 2020: agli attuali livelli di produttività questo significherebbe avere oltre 840 miliardi di euro di Valore Aggiunto e 15,5 milioni di nuovi posti di lavoro. Le dinamiche dell’economia del Vecchio Continente sembrano però lasciare diversi dubbi circa l’effettiva raggiungibilità di questo obiettivo.
In tale scenario l’Italia, pur restando la seconda potenza manifatturiera europea dopo la Germania, ha perso peso specifico in Europa e nel mondo, con una contrazione del contributo dell’industria al Pil nazionale dal 21,5% nel 2000 al 15,5% nel 2013 e una perdita di circa 500.000 posti di lavoro (oltre l’11% del totale).
L’Italia ha perso mezzo milione di posti di lavoro nell’industria ma, a differenza dei competitor europei, non sembra aver ancora definito un chiaro approccio strategico
A differenza dei nostri principali competitor europei – come Germania, Francia e Regno Unito, che hanno fissato una strategia di lungo termine per rafforzare o ricostruire la propria base industriale – l’Italia non sembra aver ancora definito un chiaro approccio strategico. Ad esempio, la Germania intende «essere un Paese unito per diventare la potenza economica ed industriale di riferimento dell’Europa – A strong Germany in a strong Europe», mentre il Regno Unito punta ad «essere un Paese imprenditoriale, ambizioso, aperto e tollerante, leader mondiale per innovazione, istruzione e creatività entro il 2020» e gli Stati Uniti d’America intendono «essere la potenza leader nel mondo basata sulla capacità di dare a tutti il Sogno Americano».
A monte, l’Italia deve definire una Visione-Paese il più possibile inclusiva, unificante e in grado di “fertilizzare” il maggior numero di settori economici, indicando una direzione di lungo periodo per il proprio sistema economico-produttivo. La nostra proposta di visione per l’Italia è «essere il Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze per fare vivere meglio il mondo».
La nostra proposta di visione per l’Italia è «essere il Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze per fare vivere meglio il mondo»
Da questa visione devono discendere chiari obiettivi strategici a 5/7 anni che devono servire a misurare la bontà degli interventi messi in campo ed essere coerenti con i punti di forza distintivi del nostro Paese: il tessuto industriale diffuso, una ricerca scientifica di alto livello e un patrimonio artistico, ambientale e culturale unico al mondo.
Una politica industriale efficace deve inoltre puntare a fare evolvere il modello industriale in funzione delle sfide attuali dell’economia globale anche adottando un mix coerente di misure di carattere trasversale e “verticali” di settore.
Anche alla luce del confronto con gli industriali del nostro Paese riuniti all’interno di Ambrosetti Club, riteniamo che le quattro priorità per la politica industriale italiana debbano essere:
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difendere i settori industriali strategici per il Paese (da individuare secondo criteri quali il peso relativo nella produzione nazionale, la quota di mercato all’estero e la qualità dell’occupazione e attivazione per l’indotto);
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integrare industria e servizi (il cosiddetto manu-service) e preservare l’integrità delle filiere industriali, nella considerazione che ormai la creazione di valore si attiva in misura crescente soprattutto nelle fasi/attività a monte e a valle della produzione;
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mantenere la leadership del Made in Italy nell’alto di gamma, ma estendere la specializzazione produttiva per tutti i prodotti e servizi indirizzati alla crescente classe media globale, la cui capacità di spesa arriverà al 2030 (fonte Ocse) ad oltre 56 trilioni di dollari; tre volte i valori attuali;
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portare le tecnologie di frontiera all’interno dei settori tradizionali dell’industria e valorizzare le Pmi innovatrici (a partire da quelle operanti nei settori strategici di cui sopra).
Gli obiettivi di medio/lungo termine di una nuova politica industriale potrebbero essere i seguenti:
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– tornare al 4% della quota di mercato globale dell’export manifatturiero (oggi il 2,75%)
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– raggiungere la Germania per quota di occupazione collegata ai servizi attivata dal settore manifatturiero (52% rispetto all’attuale 37%)
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– raggiungere il 15% di quota di mercato globale nell’alto di gamma da parte del Made in Italy (rispetto all’8% attuale)
- – superare il 10% del Valore Aggiunto manifatturiero da settori high-tech (rispetto al 7,4% attuale) e arrivare al 10% del Pil.
Il raggiungimento di questi obiettivi ambiziosi dipende in larga parte anche dal miglioramento delle condizioni di contesto-Paese per garantire le basi per un tessuto industriale “sano”. Per questo sei interventi appaiono particolarmente urgenti:
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– ridare efficienza al sistema della giustizia;
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– ridurre la pressione fiscale sulle imprese (tra le più alte nel mondo);
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– migliorare la capacità di trasferimento tecnologico;
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– ridurre il peso della burocrazia;
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– ridurre il costo dell’energia;
- – aggiornare le competenze della forza lavoro, anche in chiave digitale.
L’impegno del Governo in carica, testimoniato dal varo di task-force sull’Industrial Compact e da diversi interventi in tema di innovazione, patrimonializzazione delle imprese e sostegno alla internazionalizzazione, costituisce un importante segnale di cambiamento. Per realizzare concretamente una politica industriale in Italia occorre, tuttavia, una più forte mobilitazione di tutte le componenti del Paese: le istituzioni ai vari livelli territoriali, associazioni industriali, università, parti sociali, capi azienda e imprenditori dell’Industria e della Finanza.
L’istituzione di una “Giornata Nazionale dell’Imprenditore”, come fatto ad esempio in Francia, che riunisca tutti questi stakeholder, può aiutare a posizionare l’Industria e gli imprenditori al centro di un grande progetto comune del Paese, individuando una politica industriale per l’Italia e di anno in anno discuterne e concertarne i temi importanti, facendo leva sulle (spesso poco conosciute) esperienze di successo e coinvolgendo le nuove generazioni e i talenti emergenti.
*Managing Partner, The European House – Ambrosetti