Giovedì 23 aprile si è festeggiato in Israele il Giorno dell’indipendenza, che commemora la dichiarazione del 1948. E la scena politica, da sei anni a questa parte, è in mano all’uomo che sperava di poter annunciare il suo nuovo governo in quell’occasione così simbolica, ma che ha dovuto chiedere un’estensione fino al prossimo 6 maggio.
Mai dare per morto qualcuno se non si ha la certezza della sua dipartita, soprattutto se costui risponde al nome di Benjamin Netanyahu, il premier che sembrava destinato a soccombere nel confronto elettorale del mese scorso per eleggere la XX Knesset.
Come spiegare la riconferma del premier, nonostante le posizioni anti-palestinesi, i toni apocalittici sul nucleare iraniano, il diffuso malcontento e la spaccatura con l’alleato americano?
Hanno sbagliato gli analisti e hanno sbagliato i sondaggisti che pronosticavano il vantaggio di HaMahane HaTzioni prima, un testa a testa con l’ incumbent poi e infine un governo di unità nazionale con gli auspici del presidente Reuven Rivlin.
E allora come spiegare la riconferma del premier, nonostante le sue posizioni anti-palestinesi, i suoi toni apocalittici nei confronti del nucleare iraniano, il diffuso malcontento di una parte della cittadinanza e la spaccatura creata con l’alleato storico americano?
Ci si aspettava che i temi come la lotta al caro-vita e alla disoccupazione, maggiormente favorevoli al blocco laburista, pesassero in modo decisivo sull’esito finale, ma il colpo di coda di Netanyahu dai seggi del Congresso Usa ha fatto prevalere l’argomento a lui più congeniale: la sicurezza di Israele.
Questa non è stata una vittoria del Likud, è stata una vittoria di Netanyahu e del suo concetto di sionismo. È un sionismo, da un lato, religioso, come dimostrano l’appoggio di Naftali Bennett, leader del partito confessionale La Casa Ebraica, di Yaakov Litzman del partito ultraortodosso Giudaismo unito nella Torah e di Aryeh Deri dell’altro partito ultraortodosso Shas; e dall’altro revisionista, profondamente influenzato dal pensiero di Ze’ev Jabotinsky e del padre Benzion.
Bibi ne ha aggiornato il concetto originale facendolo diventare un marchio di fabbrica personale che negli anni gli ha permesso di diventare padrone incontrastato del Likud. Il fatto stesso che non si scorga un suo delfino in seno al partito è segno della supremazia che mantiene saldamente in mano, alimentando le voci che indicano il colono del “focolare ebraico” Naftali Bennett suo erede e successore al governo.
Jabotinsky, una figura che continua a dividere
Il sionismo revisionista nasce con Vladimir Ze’ev Jabotinsky, una figura che ancora oggi divide l’opinione pubblica ebraica tra chi lo considera fondatore dello squadrismo anti-arabo e anti-socialista – forti erano i contrasti con la linea del “padre della patria” David Ben Gurion – e chi lo eleva a eroe dallo spirito “risorgimentale” che tanto si batté per la costituzione dello stato di Israele.
Jabotinsky mirava a fondare un “grande Israele” che si estendesse su entrambe le sponde del Giordano
In aperto contrasto con la linea moderata e attendista di Chaim Weizmann, leader dell’Organizzazione Sionista Mondiale – che voleva far rispettare agli inglesi l’impegno della Dichiarazione Balfour – Jabotinsky fondò nel 1925 HaTzohar, movimento sionista revisionista.
Rigettando la sola pressione diplomatica, unita all’acquisto di terre nel mandato britannico in Palestina, Jabotinsky mirava a fondare un “grande Israele” che si estendesse su entrambe le sponde del Giordano. Per fare ciò l’uso della forza era inevitabile in quanto, a suo dire, unico linguaggio comprensibile agli Arabi.
A differenza di Weizmann, che non voleva inasprire i rapporti già tesi con la comunità palestinese presente nel mandato, Jabotinsky non credeva nel dialogo con gli arabi e così diede impulso alla fondazione di gruppi paramilitari ebraici a difesa dei primi coloni che avevano compiuto la aliyah, il viaggio verso le sponde orientali del Mediterraneo.
Nacque così l’Irgun Tzvai Leumi (o Etzel) una formazione paramilitare di stampo terroristico (e per questo avversata dalla Jewish Agency che organizzava l’insediamento degli ebrei stranieri in Palestina). Attiva tra il 1931 e il 1948, l’Etzel sarà la scintilla da cui si originerà il Likud di Menachem Begin nel 1973.
In verità, Jabotinsky non negava le pretese arabe sulla Palestina, ma le considerava un diritto inconciliabile e contrapposto a quello degli ebrei e dunque destinato a soccombere.
Nel suo saggio Iron Wall – We and the Arabs, del 1923, si rintracciano le origini delle scelte politiche di Netanyahu, ovvero massimalismo territoriale e pace attraverso la forza.
Il padre di Benjamin, Benzion Netanyahu, nato Mileikowsky (una volta giunti in Israele gli ebrei possono compiere l’ivrut, ovvero l’ebraicizzazione del cognome, così da cancellare il residuo della diaspora), fu uno stretto collaboratore di Jabotinsky. Questi lo nominò direttore della New Zionist Organization of America, fondazione nata per compattare la comunità ebraica statunitense attorno all’obiettivo di aiutare i fratelli stanziati nella Terra Promessa.
Il padre di Benjamin, Benzion Netanyahu, fu uno stretto collaboratore di Jabotinsky
Era uno dei cardini del pensiero jabotinskiano: trovare seguaci nella classe media ebraica in diaspora per convertirla all’ideale revisionista, isolando l’ala laburista e socialista allora maggioritaria. Netanyahu senior era noto per la sua avversione nei confronti degli Arabi, a suo dire irrispettosi della legge, tendenti per natura allo scontro e mai disponibili ad accordi o compromessi. Contrario alla soluzione dei “due Stati”, Benzion riconosceva l’esistenza di una popolazione araba, ma non palestinese, non riscontrando quindi nessuna valida rivendicazione in contrasto con quella ebraica.
Sionisti di ieri e sionisti di oggi
Basterebbe questo background per comprendere la forma mentis del premier, ma per definirla in maniera esaustiva è interessante notare il ruolo di Naftali Bennett, leader sionista religioso del partito nazionalista HaBayit HaYehudì, subito schieratosi col premier quando a novembre si aprì la crisi di governo.
Già affermato da tempo nella galassia politica della destra, Bennett ha incarnato la guida della “primavera ebraica” quando nel 2013 registrò un sonoro successo alle elezioni (conquistando 12 seggi). Il tecno-colono, ostile ai palestinesi, miete successi principalmente negli insediamenti di Giudea e Samaria presso le classi militari e imprenditoriali che operano in quelle aree. Con Netanyahu condivide l’obiettivo di annullare gli Accordi di Oslo, aumentando il numero di insediamenti in Cisgiordania per rendere sempre più difficile la realizzazione dello stato palestinese.
Le sue prese di posizione spesso dure e intransigenti hanno aiutato Netanyahu a recuperare i cardini del pensiero jabotinskyiano aggiornandoli per meglio pianificare la propria piattaforma politica, condivisa ovviamente con HaBayit HaYehudi, il partito di Bennett.
Uno stato palestinese, nella loro politica, non verrà mai avvallato poiché toglierebbe spazio al “grande Israele” e perché costituirebbe una base da cui gli arabi tenterebbero di recuperare territori; fare concessioni diplomatiche significherebbe sconfessare la vittoria nella guerra del 1967 e dare riconoscimento alle pretese dell’altra parte, mentre il “muro di ferro” (e di cemento) assieme agli insediamenti sono considerati la miglior politica per il Likud in quanto dividono, isolano e frammentano i palestinesi.
Il Netanyahu che ha vinto le elezioni è la cifra perfetta che rappresenta il sionismo 2.0 . Il leader dei laburisti Buji Herzog aveva provato a giocare la carta post-sionista – è possibile avere uno stato ebraico e democratico, ovvero uno stato che non discrimini i suoi cittadini non ebrei? – riesumando il pensiero di Yitzhak Rabin che voleva Israele come una democrazia all’europea: una società multiculturale e non uno stato etnocentrico con cittadini di serie A e serie B.
Purtroppo per lui, il premier uscente è stato abile a coagulare consensi eterogenei dalle frange nazionaliste e religiose (fatto non scontato) portando alla vittoria un sionismo intransigente che tornerà alla carica per accentuare i caratteri ebraici della società israeliana. Il Jewish Nation Bill , la legge che vuole definire Israele «la nazione del popolo ebraico» al centro di aspri dibattiti da parecchio tempo, verrà probabilmente riproposto. È l’unica maniera, secondo Bibi Netanyahu, per fare del crescente isolamento diplomatico di Israele – in corso da diversi anni – un punto di forza.