Luglio 1963: il town planner/architetto Constantinos Doxiadis organizza una crociera nelle isole greche tra una serie di esperti internazionali, tra cui Buckminster Fuller e Marshall McLuhan, per discutere il fenomeno dei network che stanno riplasmando il pianeta in una sorta di villaggio globale. La crociera genera una “Dichiarazione di Delos” che, sebbene misconosciuta, si rivela profetica.
15 Luglio 1963: un articolo pubblicato sul Lawrence Journal-World afferma che «il gruppo di intellettuali e city planner leader nel mondo nei rispettivi campi, si è detto d’accordo sul fatto che il problema dell’urbanizzazione presto diventerà il problema più pressante per l’umanità, ad eccezione, forse, del problema della guerra nucleare». Nell’articolo si afferma inoltre che «alcuni potrebbero interpretare la dichiarazione (di Delos, ndr) come una drammatizzazione, una strategia per spaventare la popolazione piuttosto che indurla a formarsi coscienza del problema». L’articolo afferma anche che «there is a lot more urgency to the matter than many realize or will admit».
2015: a più di mezzo secolo di distanza, molti concordano: si vive una Urban Age. Pochi però sembrano interrogarsi sulle conseguenze degli impetuosi fenomeni di urbanizzazione in atto pressoché ovunque nel pianeta, e in Asia in particolare.[1]
2015: Il gioco del momento sembra essere diventato quello di coniare nuovi neologismi: Limitless City, Endless City, Generic City, Global City, World City, Diffuse City, Sustainable City, Open City, Time City. Nessuno sembra aver voler accettare una semplice, difficile, verità: il termine “città” — definito da Levi-Strauss l’invenzione umana par excellence — ha perso di senso sia come sostantivo che come referenza.
Il termine “città” ha perso di senso sia come sostantivo che come referenza
La città come paradigma e forza dominante dell’ambiente costruito è parte della tradizione dell’Occidente. La città rappresenta da sempre la sede della elite dominante, in contrapposizione alla campagna, dove, tradizionalmente, si localizza il popolo illetterato e subordinato. Di qui l’idea che la città rappresenti il più integrato e completo insediamento umano.
Molti preferiscono dimenticare che la nozione di città ha fatto parte del panorama geo-politico e sociale solo negli ultimi 5.000 anni e che come ha sperimentato una nascita cosi può sperimentare (e ha sperimentato) trasformazioni radicali in conseguenza delle evoluzioni economico-sociali. In un certo senso, la città è stata una necessita storica. Ma rimane il fatto che la nozione di città ha già avuto un inizio e una fine. Il panorama attuale presenta un paesaggio che con la città tradizionalmente intesa non condivide nulla: non l’ideale sociale, non quello spaziale o geometrico, non quello economico. Nel terzo millennio, la città è ovunque e da nessuna parte, allo stesso tempo.
La crosta naturale del pianeta presenta oggi, nella maggior parte dei casi, e con la notevole eccezione dei paesi del Nord Europa, fenomeni gravi di incrostazione urbane che non sono altro che espressione di logiche selvagge di speculazione che la corruzione e il disinteresse di chi avrebbe dovuto amministrare l’evoluzione urbana negli ultimi 50 anni (la classe politica), supportato dal disinteresse e l’incompetenza di chi avrebbe avuto la responsabilità di vigilare (i giornalisti) e governare (l’elite economica), hanno reso possibili ed estremamente presenti. Chiunque si sia trovato a cercare di svolgere un ruolo operativo in Italia lo può confermare senza patita di smentita: né la stampa, né la politica, né la finanza hanno ascoltato, né tantomeno compreso il messaggio di Delos, vecchio ormai di 50 anni. Di qui la necessità di porre il problema e di indicare una possibile via di uscita. Il mio tentativo è spiegato in un libro intitolato Dörfer-Großstadt, che è una sorta di applicazione del rasoio di Occam: a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire .
Dörfer-Großstadt è una collezione di memoranda, saggi, interviste, video, gallerie fotografiche, grafici interattivi, reportage, dati e anche un diario personale che ha raccolto negli ultimi cinque anni. La diversità dei documenti e della scrittura riflettono la diversità del mondo urbano di oggi e insieme la necessità di approcciare il problema dagli angoli più disparati. Dörfer-Großstadt è una street trilogy perché deriva dalla mia esperienza personale dei luoghi descritti piuttosto che da una bibliografia ordinata a priori. Questo significa che l’inquadramento del problema e di una sua possibile soluzione arrivano dalla strada, e non dall’accademia, che nella maggior parte dei casi, come ci si può aspettare, risulta impermeabile al tentativo di trascrivere delle tracce della nuova geografia urbana che caratterizza, e caratterizzerà sempre più, il nuovo millennio come un millennio “urbano”.
Dörfer-Großstadt può essere tradotto in Italiano con Metropoli di villaggi
Dörfer-Großstadt è una parola che ho coniato per dare espressione alla geometria fisica e mentale di una teoria che ho formulato per affrontare i fatti urbani nella cosiddetta “Urban Age”. È un termine che fa riferimento alle Gestalt e alle sue qualità descrittive. Dörfer-Großstadt può essere tradotto in Italiano con Metropoli di villaggi. Può sembrare una contraddizione in termini ma il nuovo termine ha un duplice obbiettivo: esprimere la strutturale instabilità e tensione dei fatti urbani e insieme ricordare che questi ultimi possono essere compresi solo facendo ricorso alla micro e macro scala contemporaneamente.
La teoria della Dörfer-Großstadt riconosce il fatto che l’evoluzione dei fatti urbani rappresenta il più complesso dipartimento dell’attività dell’uomo e che pertanto si può interagire con essi solo facendo ricorso a modelli pratici, non dogmatici che non escludono, e anzi mettono in pratica, operazioni radicali (descritte) come l’urban hacking, il multi-scaling, recycling oppure operazioni importati di demolizione che sono diventate oggi un necessità storica per eliminare le ridondanze che si sono metastatizzate sul corpo malato di molte conglomerati urbani attuali: edifici vuoti, non occupati, o semplicemente in via di disfacimento, che occupano brani importanti di suolo, a costi altissimi per la collettività. Di qui la necessità di un “Nobel project for urbanity” che possa ridare dignità al nome Nobel per il motivo per cui è conosciuto nel campo scientifico, l’invenzione della dinamite, utilissima per eliminare le metastasi di cui sopra, piuttosto che per l’artefatta aura costruita dalla stampa al suo intorno.
La teoria della Dörfer-Großstadt propone una serie di manifesti operativi che posso dare avvio and un nuovo contratto tra l’artificiale e il naturale
La teoria della Dörfer-Großstadt propone una serie di manifesti operativi che posso dare avvio and un nuovo contratto (come si direbbe in Tedesco) tra Natur e Kultur, tra l’artificiale e il naturale che, contrariamente alla tradizione dell’Occidente, possano essere considerati complementari invece che polarità opposte ed auto escludenti. Questa nozione è nel libro derivata mettendo a reagire Beirut con Berlino, due conglomerazioni urbane confrontabili più per ragioni di geopolitica che per ragioni culturali, anche se queste ultime sono in grado di indicare, senza mezzi termini, quale sia la strada da non percorrere (ossessione libanese per il centro cittadino) e quale invece quella da percorrere (completo disinteresse tedesco per il mitte, centro geometrico cittadino, regalato al consumo turistico più bieco).
La metropoli costituita da isole urbane è una realizzazione post-facto dell’urbanesimo romantico
Il libro reca un titolo tedesco perché molti dei suo argomenti sono derivati dal diretto contatto con espressioni diverse della cultura e civilizzazione tedesca e poi perché la lingua tedesca permette la costruzione di nuove parole per nuovi concetti, facilitando la ricezione di nuovi modi di pensare. Ma il motivo più importante per aver fatto questa scelta, rimane il fatto che il modello proposto, la metropoli costituita da isole urbane, o villaggi indipendenti di dimensione limitate e comprensibili da un punto di vista geometrico, nonché umano ― villaggi di 250.000 abitanti circa ― è una realizzazione post-facto dell’urbanesimo romantico che si è casualmente depositato a Belino nel corso del XX secolo in conseguenza della grande quantità di eventi li accumulatesi, che hanno fato di Berlino un nodo imprescindibile della scienza urbana, prima della geopolitica. Il modello berlinese della metropoli a misura d’uomo priva di centro, priva di periferia e, soprattuto, priva di retorica capitalista, si basa su di un archetipo: la Venezia pre-rinascimentale, da cui molti suoi principi sono derivati. Questi due modelli anti-idealisti rappresentano due paradigmatiche eccezioni al modello urbano centripeto tipico dell’Occidente. Entrambi suggeriscono che i fatti urbani possono essere disposti come grandi arcipelagi di isole urbane, in cui il vuoto (il non costruito) ricopre la stessa importanza del pieno (il costruito).
Per questo motivo rappresentano un formidabile archivio di argomenti in grado di smascherare la trivialità e il respiro corto della retorica trionfante oggi, la retorica della smart city che cerca acriticamente di invadere il mercato delle idee con una merce intellettualmente avariata: la possibilità di rendere smart ciò che, per sua naturale inerzia strutturale e temporale ― i fatti urbani ― non può che essere dumb, ottuso. Una retorica che, nel giro di pochissimo tempo già annoia i più, invece che i few.
Lunga vita alla metropoli dei villaggi ottusi!
[1] Come si può facilmente immaginare, esiste anche The Urban Age Programme, (LINK http://lsecities.net/ua/)
ovvero un programma (supportato dalla Alfred Herrhausen Society della Deutsche Bank) che si occupa, in una conferenza plenaria a cadenza annuale, di produrre resoconti sulle dinamiche sociali e spaziali delle città del mondo.